Le ultime due elezioni che hanno fatto notizia in Sud America, le presidenziali in Argentina dello scorso novembre e il rinnovo del parlamento venezuelano a dicembre, entrambe vinte dalle opposizioni di centrodestra, sono state analizzate come l’inizio della fine del ciclo favorevole alle sinistre. Un ciclo che, con l’eccezione della Colombia, portò a un cambiamento totale e radicale delle storiche classi dirigenti insediando ai vertici degli Stati sudamericani uomini e donne appartenenti alle diverse correnti della variegata famiglia della sinistra latinoamericana.
Questo è stato possibile perché con la fine della Guerra fredda la democrazia, liberatasi dai vincoli di obbedienza ai dettami di Washington in chiave anticomunista, divenne lo strumento del cambiamento. La bistrattata e talvolta disprezzata “democrazia borghese” è stata quella che ha permesso una vera e propria rivoluzione democratica, uno stravolgimento degli schemi centenari di potere, aprendo le porte a una nuova classe dirigente che trent’anni prima sarebbe stata soltanto carne da macello per i militari.
La principale fortuna di questi presidenti è stata quella di governare all’inizio di un ciclo favorevole per le materie prime alimentari e minerarie, sostenuto dalla domanda insaziabile della Cina, diventata in pochi anni il principale partner commerciale dei Paesi sudamericani. Alcune di queste esperienze di governo hanno lasciato profondi segni nella società, soprattutto sul fronte dei diritti civili e individuali. In diversi Paesi è stato introdotto il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono state liberalizzate le droghe leggere, tutelate le minoranze etniche, approvate leggi contro le violenze e le discriminazioni di genere, introdotti gli assegni universali per i figli e la disoccupazione retribuita, allargato il welfare.
Ciò che, invece, è stato fallimentare attiene ai più antichi vizi della politica sudamericana: corruzione, nepotismo, assunzioni clientelari, manipolazione dell’informazione, uso politico dello sport, autoperpetuazione. Diversi Paesi hanno modificato le proprie Costituzioni e leggi elettorali per permettere la rielezione più e più volte del leader di turno. La democrazia, che è stata la chiave di volta pacifica per cambiamenti profondi in Sud America, è stata maltrattata dai suoi stessi beneficiari.
La crisi economica che ha colpito il mondo a partire dal 2008 è arrivata da un paio d’anni in Sud America, e con essa l’esaurimento rapido di alcune esperienze di sinistra che avevano saputo ridistribuire il reddito ai tempi delle vacche grasse ma che si sono dimostrati incapaci di governare in tempi di vacche magre, riproponendo il drammatico ciclo dell’indebitamento pubblico-inflazione nel quale sono finiti sia l’Argentina sia il Venezuela, non a caso i primi due Paesi dove le opposizioni sono tornate a vincere. Il Venezuela, secondo diversi analisti, rischia il default nel 2016 per via del calo dei prezzi petroliferi, gli effetti dell’inflazione che ormai ha raggiunto quasi il cento per cento annuo, il crollo delle riserve valutarie nazionali e la mancanza cronica di beni di prima necessità sugli scaffali dei supermercati. Un disastro annunciato sul quale ha pesanti responsabilità soprattutto l’attuale governo.
Le reazioni dei governi che hanno perso le recenti elezioni sono preoccupanti. Hanno fatto fatica a riconoscere i risultati e, anzi, in Venezuela si prevedono contestazioni. La democrazia, per alcuni settori della sinistra sudamericana, è tornata “borghese” perché hanno vinto le destre; non c’è stato alcun ragionamento sulle cause della disfatta. Per la democrazia in Sud America, così difficilmente riconquistata, si preannunciano ancora una volta tempi difficili. Oggi la sinistra sudamericana è chiamata a prendere atto della sua fase declinante e a riflettere seriamente sugli errori commessi e sui correttivi da adottare se vorrà tornare a interpretare società rimaste ancora ingiuste.