Praticamente da sempre il successo della televisione si è misurato in ascolti, quali che fossero i metodi utilizzati per rilevarli: più persone davanti allo schermo significa vendere a prezzo più alto i relativi spazi pubblicitari, che è il modo principale con cui si finanzia un network generalista. L’arrivo dei canali a pagamento prima, ma soprattutto delle piattaforme come Netflix poi ha cambiato le carte in tavola: Netflix si rifiuta da sempre di rivelare quante persone guardano i suoi show, e conta solo il numero di abbonamenti sottoscritti (125 milioni in tutto il mondo, ad aprile 2018), l’unico dato che le interessa perché è quello con cui fa soldi.
Noi non sappiamo chi guarda cosa su Netflix, ma Netflix sa tutto su di noi, e non ha paura di usarlo: l’esempio più recente in ordine di tempo è Maniac, disponibile sulla piattaforma da fine settembre. Una delle serie più attese dell’anno, per i nomi coinvolti: i co-protagonisti sono Jonah Hill – due volte candidato all’Oscar, con L’arte di vincere e The Wolf of Wall Street – e Emma Stone – che l’Oscar l’ha vinto con La La Land; nel cast c’è anche la grande attrice hollywoodiana Sally Field; il regista è Cary Fukunaga, diventato celebre per aver diretto l’intera prima stagione di True Detective e che è appena stato scelto come regista del prossimo film di James Bond.
La premessa narrativa di Maniac è volutamente bizzarra: l’ambientazione è una New York appena futuribile ma dall’estetica molto vintage, Owen è un giovane uomo schizofrenico vessato dalla famiglia e incapace di distinguere tra realtà e finzione, Annie è una ragazza tosta ma devastata da un lutto terribile e dipendente da una nuova droga.
Owen e Annie decidono – per ragioni diverse – di partecipare a una sperimentazione farmaceutica che promette di trovare la cura per le malattie mentali e per il male di vivere: una puntata dopo l’altra, viaggiano nella propria mente, dentro sogni che assomigliano ad altrettanti piccoli e diversissimi film. Guardare Maniac dà la sensazione di fare una specie di zapping tra generi cinematografici differenti, quindi anche un po’ di sfogliare un catalogo di Netflix, ma c’è di più: Fukunaga ha raccontato che i dati sulle abitudini di visione degli spettatori raccolti dalla piattaforma negli ultimi anni hanno influenzato direttamente le sue scelte creative.
«L’algoritmo vince sempre» sono le sue parole, ammettendo di aver modificato sceneggiatura o montaggio per minimizzare il rischio di perdere pubblico in un punto o in un altro degli otto episodi che compongono la miniserie.
Il risultato dipende certo dai gusti, Fukunaga è un regista talentuoso, le scenografie e l’estetica di Maniac sono curatissime, e Emma Stone è un’attrice straordinaria che non volete perdervi; ma non sarà un caso se, a uno spettatore almeno un po’ cinefilo, tutta l’operazione suoni povera d’originalità, piena di citazioni che vanno da Terry Gilliam a Wes Anderson a Michel Gondry, forzatamente eccentrica ma sotto sotto abbastanza semplificata. Perché forse gli algoritmi sognano pecore elettriche, ma non hanno ancora sviluppato una vera fantasia.