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Cosa succede davvero ai check-point?

Salgono a 134 i palestinesi uccisi nei Territori Occupati dall’inizio di ottobre: gli ultimi 4 la mattina della vigilia di Natale. Di questi 134 morti, molti sono accusati di aver attaccato coloni o soldati israeliani. Come Eyad Ideis, 25 anni, ucciso per aver aggredito un gruppo di soldati con un taglierino a un check-point vicino a Hebron la mattina del 24 dicembre.

Poco prima il 22enne Muhamma Zahran era stato ucciso da due guardie israeliane all’ingresso della colonia di Ariel; le due guardie hanno raccontato di essere state aggredite con un coltello. Nelle stesse ore un altro palestinese veniva ucciso con l’accusa di aver tentato di investire un gruppo i soldati.

Ma chi indaga su queste presunte aggressioni? Chi ci assicura che le cose sono andate davvero come raccontano i militari israliani?

Mustapha Barghouti è un medico, attivista e politico palestinese. In questa intervista telefonica da Ramallah ci dice che – nella maggior parte di questi casi – non ci sono prove che i militari israeliani siano stati veramente aggrediti. Che molti palestinesi sono stati uccisi quando erano già a terra, feriti e incapaci di nuocere. Insomma, si tratterebbe di esecuzioni extragiudiziali. E in molti casi – accusa Barghouti – i militari israeliani impongono alla famiglie palestinesi di non fare l’autopsia sui corpi dei loro cari. Come mai?

Ascolta l’intervista a Mustafa Barghouti

A sostegno delle accuse di Barghouti, ci sono alcuni casi che gli attivisti per i diritti umani sono riusciti a documentare. Amnesty International racconta sul proprio sito che il 6 novembre scorso soldati israeliani hanno ucciso la 72 enne palestinese Tharwat al Sharawir. “Ha tentato i investirci” hanno raccontato i militari. Un video dell’accaduto mostra la macchina della palestinese procedere così lentamente da permettere ai soldati di scansarsi e poi di crivellarla di proiettili, quando l’auto si stava già allontanando. Il figlio della donna ha spiegato che la madre stava solo tornando a casa per pranzo. Amnesty ha concluso che – ammesso e non concesso che la donna volesse investire i soldati – questi hanno iniziato a sparare quando l’auto era già passata oltre e non costituiva più un pericolo per loro. Si tratta dunque di un uccisione illegale.

Un altro caso su cui Amnesty International è riuscita a indagare è quello del 23 enne palestinese Mahdi al-Muhtasib, ucciso dai soldati israeliani il 29 ottobre scorso vicino a Hebron. Secondo i militari, il giovane aveva tentato di accoltellarli. Un video girato subito dopo la presunta aggressione mostra Mahdi che si contorce a terra ferito. Un soldato israeliano – a distanza diversi metri – gli spara ancora e lo uccide, anche se il ragazzo non costituiva più una minaccia. Uccidere una persona ferita a terra è un crimine e una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, scrive Amnesty.

Un altro video pubblicato da Al Jazeera e altri media lo scorso ottobre mostra una donna palestinese circondata da soldati israeliani che la accusano di avere un coltello. La donna – immobile, in piedi – urla terrorizzata, finché soldati pesantemente armati le sparano da alcuni metri di istanza e lei cade a terra gravemente ferita. Il coltello, nel video, non è visibile.

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Sono i questi video che circolano sul web e accendono la rabbia palestinese. L’ultimo è stato mostrato la sera del 23 dicembre dalla tv israeliana Channel 10. Si vede una festa di matrimonio di coloni che danzano armati di fucili e coltelli, cantando canzoni che inneggiano alla violenza e alla vendetta contro i palestinesi. I coloni brandiscono la foto di Ali Dawabsheh, un lattante palestinese ucciso l’estate scorsa nell’incendio della sua casa, appiccato da estremisti israeliani. La foto del bambino palestinese viene fatta a pezzi durante la festa. La polizia israeliana ha aperto un’inchiesta.

Molte di queste inchieste in realtà vengono aperte per calmare l’indignazione fra lo stesso pubblico israeliano, e poi chiuse senza colpevoli. E le famiglie palestinesi – viste le intimidazioni e l’assenza di legge nei Territori occupati – non avranno mai la possibilità di conoscere le vere circostanze della morte dei loro cari.

Per chi vuole saperne di più, il sito di Al Jazeera ha compilato una mappa con le foto, le storie e le informazioni disponibili sulle vittime palestinesi e israeliane dell’ultima ondata violenza nei Territori palestinesi occupati.

  • Autore articolo
    Michela Sechi
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    Il populismo d’Argentina. E’ quello che ha caratterizzato Jorge Maria Bergoglio durante i suoi dodici anni di pontificato. Scrive oggi sul quotidiano Domani, Nadia Urbinati, teorica della politica alla Columbia University di New York. «Figlio d’Argentina, culla del populismo, la retorica che taglia in due fatti e concetti, che arriva diritta alle emozioni, che non fa sconti perché il giusto e lo sbagliato devono stare o di qua o di là. Il populismo argentino fu social-nazionale in politica e conservatore nei valori. Così papa Francesco, che non ha avuto difficoltà a essere populista progressista nelle questioni sociali e conservatore in quelle morali, del resto coerenti ai principi della Chiesa di Roma». Bergoglio ha saputo tenere insieme lingue diverse. E non è detto che sia stata sempre una virtù. Papa Francesco ha tenuto insieme la lingua della Laudato Si’, che denuncia le ingiustizie contro l’ambiente, gli umani, che tiene insieme la crisi sociale e ambientale. Bergoglio ha tenuto insieme questa lingua con una lingua violentemente anti-abortista. Diceva nel settembre 2024: «un aborto è un omicidio, si uccide un essere umano», e «i medici che si prestano a questo sono, permettetemi la parola, sicari». Pubblica ha ospitato Rosa Fioravante, ricercatrice e docente di etica aziendale e delle organizzazioni; e Enrica Morlicchio, sociologa del lavoro, docente all’università Federico II di Napoli.

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    Nella puntata di A come Aprile del 22 aprile, a cura di Alessandro Braga, abbiamo ospitato Lorenza Ghidini, che ci ha parlato delle iniziative di Radio Popolare in vista dell’80esimo anniversario della Liberazione. Abbiamo proposto l’intervista a Giorgio Ferrari Bravo, che aveva dieci anni nel 1945 ed era a Milano il giorno della Liberazione. Infine Marcello Lorrai ci ha raccontato la storia del musicista Alberto Rabagliati.

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