Approfondimenti

Un violinista sul tetto della Storia

Dal ruolo di terrorista palestinese a uno dei testi simbolo del teatro e della letteratura ebraica.

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E’ un destino strano quello che, in questi giorni, tocca un giovane danzatore americano, Jesse Kovarsky. Il ragazzo, 27 anni, fa parte del cast del Fiddler on the Roof, “Il violinista” sul tetto”, che torna per la quinta volta a Broadway dopo la prima del 1964. Soltanto un anno fa, al Metropolitan, Kovarsky interpretava però il palestinese che a bordo dell’Achille Lauro uccideva un ebreo in The Death of Klinghoffer, l’opera di John Adams accusata di essere “una pornografia violenta antiebraica”.

 

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Le vicende degli ebrei d’America sono spesso un groviglio di storie, passioni, idee e sorprese e questa, con al suo centro Broadway, non fa eccezione.

Alcuni giorni fa, proprio al Broadway Theatre di New York, è andata in scena la prima del Fiddler on the Roof. Era una produzione attesa, come accade ogni volta che quest’opera, tratta dai racconti di Sholem Aleichem, torna sul palcoscenico. Il Fiddler racconta di un padre, Tevye, che nella Russia zarista tenta – invano – di mantenere le cinque figlie nell’orbita della cultura e della religione ebraica. Sullo sfondo ci sono le persecuzioni, i pogrom, infine l’abbandono dello shtetl, il villaggio, per editto dello zar.

Nel 1964, ai tempi del debutto con Zero Mostel nella parte di Tevye – una delle più folgoranti interpretazioni nella storia del teatro americano – il Fiddler narrava la storia del villaggio zarista ma soprattutto rifletteva la vicenda collettiva di una comunità, quella ebraico-americana, alle prese col confronto tra tradizioni e i tempi nuovi: la rivoluzione sessuale, la nuova idea di famiglia, le tensioni etniche, il dissolversi del senso di comunità. Se il Fiddler non piacque a tutti – per esempio, Cynthia Ozick lo trovò troppo carico di “nostalgia per un tempo più dolce, nonostante i pogrom” – il suo messaggio risuonava comunque nelle vite di molti ebrei americani.

Cinquant’anni dopo, l’“attualità” del Fiddler è per molti versi svanita. Gli ebrei americani hanno conosciuto trasformazioni e impatto della modernità come le altre comunità etniche; restano in larga parte uno dei gruppi più progressisti nello spettro politico e sociale americano (più del 70 per cento vota democratico) anche se l’ultimo decennio di “guerra al terrore” e altalenanti allarmi sicurezza hanno disorientato anche questa fetta di società. Quello che resta quindi oggi, del Fiddler, è soprattutto il suo essere uno straordinario pezzo di teatro, una grande occasione per gli attori, un piacere unico per il pubblico che ascolta le sue storie e musiche.

E’ con in testa proprio il richiamo senza tempo del “violinista sul tetto” che Jesse Kovarsky è entrato nella produzione in scena in questi giorni a Broadway. Kovarsky ha fatto di tutto per avere la parte. Quando ha saputo del debutto di un nuovo Fiddler, ha mosso le sue conoscenze; si è cercato un nuovo agente, ha scritto al regista Bartlett Sher per ottenere un’audizione. Alla fine ce l’ha fatta: è stato ingaggiato per interpretare una parte solo coreografata, proprio quella del “violinista” che accompagna e commenta l’azione.

Il look “etnico”, dice ora Kovarsky, l’ha aiutato a entrare nel cast che racconta storie lontane di ebrei nella Russia degli Zar: carnagione scura, barba e capelli ancora più neri e imponenti. Quella stessa apparenza “etnica” è però anche ciò che ha fatto conquistare a Kovarsky un’altra parte, l’anno scorso: il militante palestinese che uccide un anziano ebreo in sedia a rotelle in The Death of Klinghoffer di John Adams (tratto dalla storia a bordo dell’Achille Lauro nel 1985). L’opera, andata in scena per la prima volta nel 1991, è da anni inseguita da accuse di antisemitismo e di “simpatia” nei confronti dei terroristi. Adams, e insieme a lui il regista Peter Sellars, hanno sempre respinto le accuse ma lo scandalo non si è attenuato. L’opera è stata cancellata da alcuni teatri dove era stata programmata e la decisione del Metropolitan, l’anno scorso, di rimetterla in scena, è stata accompagnata da manifestazioni di protesta fuori del teatro.

 

A protester holds a sign during a rally across from Lincoln Center and the New York Metropolitan Opera during a demonstration in New York, October 20, 2014. REUTERS/Mike Segar

 

Proprio in quella produzione danzava Kovarsky. Cresciuto in una famiglia di ebrei liberal di Chicago, Kovarsky non ha avuto un’educazione religiosa né, confessa, ha “mai saputo troppo del conflitto israelo-palestinese”. A quel punto ha cominciato a leggere: Jerusalem di Simon Sebag Montefiore, The History of the Jews di Paul Johnson, Palestine di Joe Sacco e The Achille Lauro Hijacking di Michael K. Bohn. Per identificarsi, per capire lo “stato mentale” di Omar, il suo personaggio, è arrivato a imbracciare e sentire il peso e il potere di un AK – 47. Alla fine, ha raccontato, è arrivato a una conclusione: The Death of Klinghoffer non “giustifica i terroristi, ma li umanizza, perché anche i terroristi sono essere umani”. E questa, forse, è la ragione dello scandalo che, a ogni rappresentazione, esplode alle note dell’opera di Adams.

Più facile è stato il compito di Kovarsky per il Fiddler on the Roof. Non ha dovuto telefonare ai genitori, per avvertirli che interpretava un terrorista palestinese; soprattutto, si è lasciato dietro sit-in di protesta e conflitti di decenni per avvolgersi nella nostalgia morbida e rassicurante del “violinista”. A chi gli chiede come lo hanno cambiato le esperienze, risponde di essere un millennial, abituato a un naturale carico di “apatia e realismo”, ora alle prese con qualcosa di lontanissimo: guerre etniche, scontri religiosi, grandi ideali, odi secolari.

Forse più semplicemente, verrebbe da dire, nella vita e nella carriera di questo ragazzo di Chicago si sono scontrati per caso passato e presente, paure e aspirazioni che muovono da decenni la comunità degli ebrei d’America.

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  • Autore articolo
    Roberto Festa
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    Il populismo d’Argentina. E’ quello che ha caratterizzato Jorge Maria Bergoglio durante i suoi dodici anni di pontificato. Scrive oggi sul quotidiano Domani, Nadia Urbinati, teorica della politica alla Columbia University di New York. «Figlio d’Argentina, culla del populismo, la retorica che taglia in due fatti e concetti, che arriva diritta alle emozioni, che non fa sconti perché il giusto e lo sbagliato devono stare o di qua o di là. Il populismo argentino fu social-nazionale in politica e conservatore nei valori. Così papa Francesco, che non ha avuto difficoltà a essere populista progressista nelle questioni sociali e conservatore in quelle morali, del resto coerenti ai principi della Chiesa di Roma». Bergoglio ha saputo tenere insieme lingue diverse. E non è detto che sia stata sempre una virtù. Papa Francesco ha tenuto insieme la lingua della Laudato Si’, che denuncia le ingiustizie contro l’ambiente, gli umani, che tiene insieme la crisi sociale e ambientale. Bergoglio ha tenuto insieme questa lingua con una lingua violentemente anti-abortista. Diceva nel settembre 2024: «un aborto è un omicidio, si uccide un essere umano», e «i medici che si prestano a questo sono, permettetemi la parola, sicari». Pubblica ha ospitato Rosa Fioravante, ricercatrice e docente di etica aziendale e delle organizzazioni; e Enrica Morlicchio, sociologa del lavoro, docente all’università Federico II di Napoli.

    Pubblica - 22-04-2025

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