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Caos Libia, la transizione dopo l’accordo

Un nuovo inizio per la Libia. A Skhierat, in Marocco, è stato firmato dalle delegazioni dei due parlamenti un accordo per un nuovo governo di unità nazionale, che mette la fine allo scontro istituzionale e alla guerra tra milizie rivali. Una trattativa lunga, durata oltre 14 mesi, guidata prima dall’inviato dell’ONU, Bernardino Leon, e proseguita poi dal suo successore, Martin Kobler.

L’accordo ha costruito un impianto istituzionale complesso per garantire le due parti nella coabitazione durante le fase transitoria futura. Ma le minoranze estremiste dei due parlamenti hanno tentato fino all’ultimo di bloccare l’accordo, nel timore di perdere i propri privilegi di potere.

La crisi libica è stata originata da uno squilibrio tra il potere politico uscito dalle urne e il controllo militare sul territorio in mano alle milizie di varie tendenze, islamiste e regionali. Nelle elezioni del 2012, il Fronte delle forze nazionali e democratiche ha vinto le elezioni con oltre il 51 per cento della quota proporzionale, ma non aveva la maggioranza nel Congresso, per effetto del meccanismo maggioritario su base regionale a candidato unico.

I Fratelli Musulmani con il 17 per cento dei voti nel proporzionale sono riusciti ad occupare un ruolo di minoranza determinante. Il loro controllo sulle milizie ha fatto il resto. Occupazione di ministeri, imposizioni della legge liberticide cosiddetta dell’isolamento politico che ha mandato in esilio grandi uomini di opposizione al vecchio regime tirannico semplicemente perché hano ricoperto la carica di ambasciatore, come nel caso dell’ex presidente del Congresso, Mgherief, e non ultimo il rapimento dell’ex premier Alì Zeidan.

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Parallelamente, nel Paese cresceva una tendenza jihadista che ha messo in atto attentati, agguati e assassinii mirati di servitori dello Stato, ufficiali dell’esercito, alti responsabili delle forze di sicurezza e magistrati con il pretesto di essere stati al servizio di Gheddafi. In realtà, queste milizie obbedivano ad un’agenda precisa: impedire la formazione di un esercito e di forze di sicurezza per uno Stato libico nuovo e democratico. Nelle elezioni del 2014, la Fratellanza Musulmana ha visto scendere il proprio consenso al 11 per cento e a quel punto hanno rovesciato il tavolo democratico e hanno rifiutato il passaggio dei poteri al Parlamento eletto. Il giorno delle elzioni, il 25 giugno 2014 è stata assassinata a casa sua Salwa Bughieghis, ex membro del CNT e presidente della commissione del dialogo libico.

La situazione di dualità di potere si è trasformata in una guerra reale per le strade di molte città e principalmente a Bengasi, la città dove è nata la rivolta dei giovani libici contro la dittatura il 17 febbraio 2011. Il Paese è rimasto diviso in due. Il Congresso decaduto abbarbicato al potere che non accetta il responso delle urne con pretesti ridicoli, ma forte del sostegno militare delle milizie islamiste ben foraggiate economicamente dallo stesso presidente del Congresso con un bilancio annuale di 900 milioni di dollari, controlla la capitale e tutta la zone ovest e sud del Paese. Il Parlamento eletto riconosciuto internazionalmente ma di fatto con un esercito debole e mal armato, controlla la parte orientale e la zona montagnosa al confine con la Tunisia, tramite le milizie di Zentan.

La divisione politica tra islamisti e nazionalisiti democratici ha aperto la strada alla sempre più pericolosa penetrazione degli jihadisti che hanno stabilito delle loro roccaforti a Derna prima e a Sirte poi, per annunciare la creazione delle province libiche del califfato, prestando giuramento all’autoproclamato califfo Al-Baghdadi.

Kobler insieme al generale Haftar
Kobler insieme al generale Haftar

Probabilmente il pericolo di una deriva jihdista, che stava mettendo mano sugli impianti e giacimenti petroliferi, è stata la molla che ha convinto le parti rivali ad accettare la mediazione internazionale, nella quale l’Italia ha giocato un ruolo fondamentale. L’Italia è interessata ad una pacifica composizione del conflitto libico per diverse ragioni: la riduzione del flusso di migranti provenienti dalle coste libiche e gestito dalle milizie islamiste in prima persona, per accrescere le proprie fonti di finanziamento; gli investimenti dell’ENI nel settore petrolifero e gas e gli interessi commerciali; il timore che nelle coste libiche metta piede il sedicente califfato con il pericolo di un nuovo fronte di guerra nel Mediterraneo.

Un duro e lungo lavorio diplomatico è stato coronato alla fine con il successo. L’accordo è stato siglato alla presenza dell’inviato dell’ONU Kobler e del ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni. Il premier nominato è Fayez al Sarraj, parlamentare del Parlamento di Tobruk, ma originario di Tripoli, ed avrà tre vice-premier, uno per ciascuna delle tre regioni nelle quali è divisa amministrativamente la Libia. Lunedì prossimo il Consiglio di Sicurezza prenderà una risoluzione per garantire il ristabilimento del governo a Tripoli.

Il consigliere per la sicurezza del Segretario Generale dell’ONU, il generale italiano Paolo Serra, ha già concordato, dopo visite in Libia e incontri con i capi delle milizie, il piano per la sicurezza della capitale. Lo stresso inviato Kobler si era incontrato ieri a Tobruk con il generale KHalifa Hafter, capo di Stato Maggiore dell’esercito libico per la fase futura. Il piano internazionale previsto negli allegati secretati dell’accordo di Skhierat, prevedono la presenza di unità internazionali di peackeeping di almeno 5 mila soldati, a guida italiana. Questa sarà la fase più delicata perché prevederà il disarmo delle milizie entro 60 giorni dalla formazione del governo e l’inserimento dei miliziani nelle forze armate e di polizia del nuovo Stato. Tra due anni le future elezioni democratiche sotto la supervisione dell’ONU.

Una roadmap che passa dalla lotta contro gli jihadisti di Daesh e la sconfitta delle formazioni terroristiche. Una strada tutta in salita, ma la gente della Libia ci crede e ci spera. Manifestazioni di giubilo sono state registrate in tutte le città libiche e nella diaspora. Nel conflitto libico infatti c’è un elemento trascurato: metà della popolazione libica, oltre due milioni e mezzo di persone, vivono all’estero. Se il conflitto avesse continuato a lungo e le risorse dello Stato libico fossero esaurite, questa massa si sarebbe trasformata in profughi, sul gobbo di Tunisia ed Egitto, due Paesi che non hanno la capacità economica di assorbirli.

  • Autore articolo
    Farid Adly
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