“Candidato del caos”.
E’ di Jeb Bush la definizione che resterà del dibattito televisivo tra i candidati repubblicani organizzato da CNN al Venetian Hotel&Casino di Las Vegas. “E’ il candidato del caos, e sarebbe un presidente del caos”, ha detto Bush di Donald Trump, il magnate repubblicano che continua a restare in cima ai sondaggi tra i probabili elettori delle primarie. Lo scontro tra i due ha percorso l’intero dibattito, segnato dalla predominanza dei temi del terrorismo e della sicurezza nazionale. Sembrava, da questo punto di vista, di essere tornati al 2004, quando proprio il terrorismo fu il tema che dominò lo scontro tra George W. Bush e John Kerry.
La serata di Las Vegas è arrivata a poche ore dal nuovo allarme a Los Angeles, dove oltre mille scuole sono state chiuse per una non meglio precisata “minaccia” terroristica. L’allarme è presto scemato, ma i timori suscitati da quello che con ogni probabilità è uno scherzo modellato su una serie televisiva, Homeland, mostra il grado di panico che si è diffuso negli Stati Uniti dopo gli attacchi di Parigi e San Bernardino. “Se un centro per disabili di San Bernardino è diventato un obiettivo dei terroristi, vuol dire che qualsiasi cosa in America è obiettivo dei terroristi”, ha detto durante il dibattito Chris Christie.
Ecco quindi che proprio i temi della sicurezza nazionale, per larga parte assenti durante le campagne del 2008 e del 2012, sono tornati centrali. Tutti i dieci candidati presenti sul palco si sono detti d’accordo su un punto: le politiche di Barack Obama avrebbero indebolito la potenza e leadership degli Stati Uniti nel mondo, esponendo il Paese alla minaccia di nuovi attacchi. Obama sarebbe stato debole e indeciso, e una presidenza di Hillary Clinton proseguirebbe nelle politiche che hanno indebolito l’America, che hanno mancato di generare il rispetto dovuto alla prima potenza al mondo.
D’accordo sull’attacco ai democratici, i candidati repubblicani si sono però divisi sul tipo di strategie di adottare. Gli scambi più taglienti sono stati quelli tra Rand Paul, Ted Cruz e Marco Rubio. Proprio quest’ultimo si è scagliato contro Paul e Cruz, per aver sostenuto in Senato una misura che limita la possibilità della National Security Agency (NSA) di raccogliere i metadati. “Quella che ci troviamo davanti non è soltanto la più efficace, è anche la più sofisticata minaccia terroristica mai apparsa – ha detto Rubio -. Siamo in un momento in cui abbiamo bisogno di più strumenti per combattere il terrorismo, non meno. E il programma sui metadati che abbiamo perso era uno di questi strumenti”.
Paul e Cruz hanno reagito ricordando l’appoggio dato da Rubio alla riforma dell’immigrazione passata in Senato nel 2013. “L’unica cosa che avrebbe potuto fermare il massacro di San Bernardino, che avrebbe potuto bloccare l’11 settembre, sono controlli più severi alle frontiere – ha detto il senatore Ted Cruz -. E Marco si è sempre opposto a maggiori controlli alle frontiere”. Cruz, figlio di padre cubano e madre statunitense, ha ripetuto quello che è diventato uno dei punti forti della sua strategia elettorale: l’ostinato rifiuto a ogni possibilità di legalizzazione per i milioni di immigrati che vivono senza documenti nel Paese. La chiusura in tema di immigrazione è anzi stata in queste settimane uno dei modi in cui il senatore del Texas è salito nei consensi ed è riuscito a porsi come punto di riferimento del mondo conservatore e della destra repubblicana.
Per il resto il dibattito organizzato a Las Vegas è stato l’occasione per portare un ulteriore, pesante attacco a Donald Trump. Contro ogni previsione – e speranza – della leadership repubblicana, il magnate dell’edilizia resta davanti in tutti i sondaggi effettuati su base nazionale: l’ultimo, del Washington Post/ABC News, lo colloca al 38 per cento dei consensi tra i probabili votanti repubblicani. Le dichiarazioni di Trump – sui “messicani stupratori contro cui alzare un muro”, sulla giornalista di Fox News “con il sangue che le usciva dappertutto”, sino al bando ai musulmani – gli hanno guadagnato le prime pagine dei giornali e larghi consensi tra la base repubblicana. Anzi, più Trump ha alzato il tiro – sin a ridicolizzare un reporter portatore di handicap del New York Times – più gli elettori del partito sono sembrati seguirlo.
Il fatto è che Trump, sinora, ha capitalizzato le pulsioni più populistiche della sua base, oltre a un diffuso senso di fastidio e rifiuto per la leadership del partito. A Las Vegas è così spettato a Jeb Bush, proprio il candidato un tempo prediletto dai “big” repubblicani e ora decisamente sfocato quanto a presenza e personalità, portare l’attacco più deciso a Trump. Bush ha definito il rivale “un demente”, spiegando che si tratta di un “candidato del caos che sarebbe destinato a diventare un presidente del caos”. Il fratello dell’ex-presidente ha spiegato che le proposte di Trump per bandire i musulmani dal Paese “mancano di serietà”; e ha cercato di ridicolizzarlo, spiegando che “trae le sue informazioni di politica estera dalla televisione” (un’affermazione che Trump è sembrato confermare poco dopo, quando non ha capito il significato del termine “triade nucleare”, con cui si definisce la capacità degli Stati Uniti di lanciare un attacco nucleare per terra, mare o cielo). Trump non si è scomposto più di tanto, limitandosi a replicare che “Jeb ha fallito in questa campagna… E’ stato un disastro totale, non frega a nessuno e, francamente, io sono la persona più solida qui”.
A meno di due mesi dalle primarie in Iowa, il campo repubblicano resta comunque segnato da una serie di dinamiche ormai piuttosto stabili. La dirigenza del partito, dopo Jeb Bush, sembra ora puntare su Marco Rubio. Donald Trump mantiene un indiscusso e inatteso primato nei sondaggi su scala nazionale. Ma in Iowa emerge e guida nelle previsioni di voto Ted Cruz, su cui punta l’ala più conservatrice del partito.