La condizione dei migranti africani in Tripolitania è quella della schiavitù: sequestrati da milizie, lavorano gratis e non possono tornare a casa – e la maggioranza lo vorrebbe – perché devono pagare un riscatto. Le voci e la denuncia di Michelangelo Severgnini, regista del documentario “Schiavi di riserva” e una comunità che si è formata su Facebook per denunciare.
Claudio Jampaglia lo ha intervistato oggi a Giorni Migliori.
Una delle cose più interessanti che è emersa fin da subito è che la questione schiavitù non è un fatto isolato oppure relegato alle famose carceri che poi di fatto sono colonie di schiavi. La questione della schiavitù è diffusa radicalmente nella zona della Tripolitania, dove ci sono dei meccanismi tali per cui anche le persone che non sono in carcere, ma che in qualche modo provano a raccogliere qualche soldo o a mettersi a disposizione in realtà non vengono mai pagate. In Libia è in atto un sistema che ha ripristinato la schiavitù, d’altra parte non c’è neanche un governo e non c’è bisogno di fare una legge apposita. La situazione sul terreno è fuori controllo e al di là delle milizie, qualsiasi libico con un’arma in mano può fermare un nero in mezzo alla strada, portaselo a casa e ridurlo in schiavitù.
Però poi hanno iniziato anche a mandarti messaggi audio e tutta una serie di altre testimonianze da là.
Sì, è successo un paio di mesi fa, perchè quando il documentario è uscito è stato presentato al Festival dei Lavoratori di Istanbul, dove ha ricevuto un premio.
E la settimana scorsa anche a San Francisco. Sta girando molto, giusto?
Sì, in Germania sono stato a Berlino. A San Francisco. Qui in Italia un po’ meno, devo dire. Era già stato difficile trovare dei soldi o dei finanziamenti alla vigilia delle elezioni in Italia su un argomento così sensibile. Ad ogni modo ho aperto la pagina Facebook e con mia grande sorpresa è partito un tam-tam dalla Libia, per cui i migranti hanno iniziato a commentare i post che pubblicavo, perchè molti di loro – almeno quelli che in questo momento non sono in una situazione di carcerazione o di sequestro – hanno la possibilità di collegarsi a Internet e questo penso che sia una novità rispetto a come i fenomeni migratori sono stati raccontati finora. Loro stessi possono in questo momento raccontarci quello che sta succedendo adesso in Libia. Dal momento che abbiamo un grosso problema a capire come vanno effettivamente le cose, mi è sembrata veramente una mano dalla provvidenza. Da due mesi sto raccogliendo le voci e le storie di questi ragazzi. Già ai tempi di Gheddafi c’erano delle carceri per i migranti, ma all’indomani della guerra civile queste carceri hanno continuato a funzionare, solo che nessuno aveva poi di fatto l’interesse ad impedire che questi migranti venissero in Europa. Le gang che nel frattempo si erano formate hanno pensato di chiedere un riscatto – la forma ufficiale sarebbe la cauzione se quelle fossero vere carceri. Quasi nessuno aveva i soldi per pagare questa cauzione e veniva loro chiesto di lavorare gratis fino a che non avrebbero raggiunto la cifra per la liberazione. Da qui si è passati direttamente alla schiavitù.
In questi ultimi giorni stiamo vedendo dei programmi di rientro. Ne abbiamo raccontato uno verso il Niger gestito da una Ong italiana. Ieri ne ho visto un altro organizzato dallo stato di Edo, che è il territorio della Nigeria da cui parte la stragrande maggioranza dei nigeriani. L’ufficio internazionale delle migrazioni ha già organizzato coi governi locali 38 aerei negli ultimi quattro o cinque mesi, perchè questi giovani chiedono di rientrare nel loro Paese. Questa cosa non si dice molto.
Sì, grazie per la domanda. È la questione che preme molto loro quando mi scrivono. Al di là della questione accoglienza, la loro parola d’ordine in questo momento è evacuazione, cioè lasciare al più presto la Libia perchè sono a rischio di vita e vengono trattati quotidianamente peggio degli animali. Ho saputo – ho chiesto direttamente a loro – che alcuni sono rientrati dalla Libia con voli delle Nazioni Unite e questo è ciò che si dovrebbe fare. Il problema è che i numeri sono quelli che hai detto tu. Per quanto lodevoli, stiamo parlando di alcune migliaia di persone negli ultimi mesi, mentre probabilmente ci sono centinaia di migliaia di persone che stanno chiedendo di ritornare nel loro Paese. Più che evacuazione stiamo parlando in un esodo e spero che la comunità internazionale, e in primis la società italiana, si renda conto di questo.
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