A Ventimiglia c’è un bar che rischia di chiudere per razzismo. È gestito da Delia Bonuomo, una donna che tre anni fa aprì la porta del suo locale per fare entrare una donna con dei bambini che piangevano per la fame e il freddo.
All’epoca erano centinaia al giorno le persone che passavano per Ventimiglia, nel tentativo di arrivare in Francia. Da allora i migranti sono diventati suoi clienti. Perché da lei si può ricaricare il cellulare, usare il bagno, prendere qualcosa di caldo o di fresco senza spendere una fortuna, o, se non ce lo si può permettere, senza spendere affatto.
La voce si è sparsa tra i migranti, che hanno fatto del bar Hobbit una tappa del viaggio. E tra i suoi clienti italiani, che hanno smesso di frequentarlo. Mettendo a repentaglio l’attività.
Dopo tre anni su 300 pubblici esercizi, a parte me ce ne sono adesso forse uno e mezzo che li fa sedere. Non li fanno entrare, non li vogliono, oppure mettono dei prezzi talmente alti per far sì che loro non abbiano la possibilità di sedersi.
Questa sua disponibilità, però, non si è tradotta bene negli affari.
Per me sì. Questo passaparola che c’è stato tra di loro ha fatto sì che diventasse il bar degli immigrati.
Ha perso i suoi clienti abituali?
Tutti. Inizialmente forse perché avevano paura di prendere qualche malattia bevendo un caffè. Chiedevano i bicchierini di plastica, un po’ per ignoranza e un po’ perché era “il bar dei neri”. Non lo so, bisognerebbe chiedere a queste persone che vanno tanto in spiaggia per diventare neri, e poi discriminano gli altri; vanno in Africa in vacanza però poi non li vogliono vedere qui; sono cose contraddittorie che io non riesco a spiegarmi.
Adesso è pentita di quello che ha fatto?
A livello economico io ho avuto un crollo non indifferente. Pentita non lo sono, amareggiata sì, ma per l’ignoranza che c’è stata intorno. Io devo dire grazie ai ragazzi, perché mi hanno fatto conoscere un mondo di persone solidali, di volontari e di persone ancora umane.
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