“È la prima volta che vai nella Jungle?” mi chiedono tutti, quando spiego che sono venuta a fare un reportage sui migranti di Calais.
“Allora non ti dico nulla, capirai quando la vedrai, è un posto un po’… speciale”.
In francese, è un modo gentile di dire che qualcosa ha un lato difficile da digerire, cercando di non spaventare troppo chi ascolta.
In effetti, la Giungla, come la chiamano tutti, non è facile da definire. Di certo non è un campo profughi regolamentare, perché i migranti sono stati costretti a venire a installarsi qui, intorno a un ex-centro vacanze trasformato in centro d’accoglienza dallo Stato; se non allo sbaraglio, senza molta supervisione.
All’inizio, erano i primi mesi del 2015, nessuno ha pensato di creare dei punti d’acqua o installare l’elettricità in questa landa battuta dal vento. Una distesa sabbiosa e umida, a pochi passi dalla tangenziale, a sette chilometri dal centro città e a nove dall’ingresso del tunnel sotto la Manica. Il centro statale Jules Ferry era aperto fino alle 19 e tanto bastava, secondo le autorità, a garantire ai migranti i servizi necessari. A quel tempo, già 1500 persone bivaccavano in vari spazi occupati e campi improvvisati nella sonnolenta Calais, cittadina di neanche 73 mila anime (la metà di Bergamo) con un tasso di disoccupazione che tocca il 16 per cento.
Oggi i migranti, nonostante le partenze volontarie e le retate della polizia, sono circa 5 mila. Sono solo ipotesi, però, perché nessuno è in grado di fare una stima precisa. Nel frattempo, nel campo sono stati installati bagni chimici, qualche palo della luce e quattro punti d’acqua corrente. Per avere le docce fuori dal centro Jules Ferry si è dovuto aspettare che associazioni inglesi e francesi ne installassero qualcuna rudimentale qui e là.
Quando sono arrivata vicino al campo, la prima cosa che ho sentito è stata l’odore dolciastro e persistente delle industrie chimiche che affacciano su una delle due strade da cui si accede alla Giungla. Poi ho visto le tende, sgangherate, ricoperte di plastica per proteggerle dalla pioggia e ammassate le une sulle altre per ripararsi in qualche modo dal vento del Nord.
C’è molta spazzatura in giro ma l’odore non è cosi sgradevole. Ogni tanto alcuni migranti raccolgono i rifiuti e li portano fino a grossi bidoni di metallo, dove vengono a recuperarli gli spazzini municipali avvolti in tute di plastica. Pochi metri separano l’ingresso del campo da quella che è diventata la strada commerciale della Giungla : una successione di ristoranti, minimarket, caffè e persino un barbiere. Qui le tende lasciano il posto a costruzioni di legno, leggermente sopraelevate per isolare il pavimento e rivestite di plastica e plexiglass per i più fortunati. All’interno, molti commercianti hanno ricoperto le pareti con tappeti, teli e coperte, per nascondere gli strati di materiali isolanti e rendere i locali più accoglienti.
Ristoranti e caffè sono spuntati come funghi.
Un pranzo in un ristorante afghano, a base di pollo speziato, riso e fagioli, costa 4 euro. Un chai, generalmente con aggiunta di latte e spezie, come da tradizione pashtun, viene 50 centesimi. Se volete comprare delle sigarette, basta andare in un qualsiasi negozietto, dove un ragazzo che passa il suo tempo a prepararle con tabacco sfuso e una macchinetta per rollare ve ne vende 10 a 1 euro.
Preferite un narghilè? Non c’è problema, accomodatevi e ordinatene uno al bar.
Qualcuno vende persino fiori, basta chiedere. I negozi sono spuntati come funghi, in pochi mesi. I più vecchi sono nati a primavera, alcuni li stanno ancora costruendo, altri devono essere rinforzati per resistere all’inverno che sta arrivando. Ogni tanto, un sudanese passa in bicicletta e cerca di vendere una porta. Il proprietario del negozio valuta la merce, contratta il prezzo e in pochi minuti la transazione è conclusa.
Non tutti quelli che gestiscono questi locali erano qui quando sono stati costruiti. Alcuni li affittano, lavorano abbastanza per mettere via qualche soldo e poi ripartono. Altri hanno ripreso la gestione dopo che il proprietario precedente, che li aveva già scelti come successori, è riuscito a passare in Inghilterra. Molti hanno investito in un’attività nella Giungla i pochi soldi che gli sono rimasti o quelli che ottengono dallo Stato grazie al loro statuto di rifugiati o di richiedenti asilo. In questo caso si parla di cifre che variano tra i 300 e i 500 euro al mese circa, a seconda del Paese che eroga il sussidio. Non abbastanza da permettersi un alloggio fuori dalla Giungla, ma sufficienti a finanziare una piccola attività nel campo che potrebbe rivelarsi redditizia, vista la massa di potenziali clienti.
La cultura è importante, anche nella Giungla. Con l’estendersi della tendopoli, alle associazioni locali se ne sono aggiunte altre, inglesi, spagnole, belghe. La loro azione non è sempre coordinata ma i volontari vengono di solito a occuparsi di un progetto preciso per un periodo di tempo più o meno lungo.
Alcuni di loro rimangono anche a dormire sul posto. È così che quest’estate è spuntato un bellissimo teatro, ideale valvola di sfogo per giovani e meno giovani, che vengono qui a esibirsi, a dipingere o anche solo come spettatori. La cupola bianca del teatro è diventata una vera agorà, il posto perfetto in cui riunirsi e discutere della situazione nel campo.
La scuola, invece, deve la sua esistenza al nigeriano Zimako, che è venuto apposta a Calais dall’Italia. La prima che ha costruito è diventata in poco tempo troppo piccola e adesso sta fabbricando un vero e proprio campus, con infermeria e classi separate. I professori hanno anche istituito dei corsi di musica e arte per grandi e piccini. Tra la scuola e la chiesa eritrea, lungo la strada che la Croce Rossa ha lastricato di ciottoli per renderla meno fangosa e più praticabile, alcune associazioni hanno aperto una biblioteca e dei migranti sono diventati bibliotecari.
La sera, alcune tende si trasformano in bar-discoteche in cui risuonano di volta in volta le canzoni di Bob Marley o melodie esotiche. Qui è facile trovare alcolici e, ogni tanto, scoppia una rissa. La Giungla è tanto tranquilla e industriosa di giorno, quanto brulicante e violenta di notte. Per i migranti la violenza è parte integrante della vita quotidiana e assume molte forme. Dalla prostituzione (un “servizio” costa solo 3 euro) alle retate della polizia, passando per le tensioni etniche, ce n’è per tutti.
Personalmente, ho potuto visitare il campo in lungo e in largo, spostandomi senza particolari problemi; ma non è così per tutti. La Giungla è divisa in settori per area di provenienza e di solito un sudanese non mette piede nei ristoranti afghani e un siriano non attraverserà certe zone del campo per arrivare fino alla scuola. Ci sono eritrei che non hanno nemmeno idea di dove sia il teatro, nonostante la sua posizione centrale e accessibile. Più gente arriva, però, più è difficile che le divisioni etniche durino e più facile che le tensioni aumentino.
Condannato dal Consiglio di Stato per le condizioni degradanti in cui vivono i migranti, il governo francese non dovrà solo fare in modo di migliorare le condizioni igenico-sanitarie e di accoglienza degli abitanti della Giungla, ma anche riflettere su come gestire queste problematiche, prima che la situazione degeneri.
Nota: Sono andata a Calais per fare questo reportage dal 9 al 12 novembre 2015, pochissimi giorni prima che a Parigi dei terroristi assassinassero 130 persone. Ma anche un mese prima delle elezioni regionali, che hanno visto il Fronte Nazionale battere ogni record al primo turno. Marine Le Pen, che punta a guidare la regione Nord-Pas-De-Calais-Piccardia, ha ottenuto da queste parti più del 40 % dei voti. Uno dei suoi cavalli di battaglia, durante la campagna, è stata proprio la questione dell’immigrazione e in particolare quella dei migranti di Calais. La sua – probabile – vittoria non lascia ben sperare per il futuro della Giungla e dei suoi abitanti.
Ascolta il reportage di Luisa Nannipieri da Calais