Quando è necessario, quando iniziano ad emergere in maniera evidente diversità di vedute nel Movimento su un determinato tema, arriva la parola definitiva del capo, del fondatore dei Cinque stelle che, rompendo il silenzio, vorrebbe dettare una linea per tutti.
È Beppe Grillo, che scarica ancora una volta la responsabilità dell’aumento dei casi di razzismo in Italia solo sui giornali, colpevoli di creare un “caso”, come se le violenze, le ingiurie, le discriminazioni fossero un fenomeno al pari dei “sassi del cavalcavia”, fingendo che non ci siano responsabilità politiche.
Grillo si dice indignato dall’uovo in faccia alla atleta Daisy Osakue, ma la colpa è dei “media che portano la nazione verso il baratro: non avevo mai visto un condizionamento così forte prima d’ora”, dice.
Puntando la responsabilità sui giornali, come molto spesso ha fatto in questi anni, dà la linea a tutti e cerca di mettere a tacere un malumore che invece cammina nella trasversalità del Movimento, di cui alcuni esponenti in Parlamento (pochi finora) si fanno portavoce: per il sottosegretario all’istruzione Fioramonti “chi ricopre incarichi istituzionali deve pesare le parole”, per il senatore Airola “la frase tanti nemici tanto onore non dovrebbe essere mai pronunciata da chi sta al governo”. Si riferiscono naturalmente a Matteo Salvini e al suo continuo collegare gli atti di razzismo ad una presunta invasione di immigrati, con un significato che ha sempre il sapore giustificatorio.
E Di Maio segue il solco creato dal suo collega vicepremier, parla di “strumentalizzazioni di alcuni casi di violenza”, minimizza quindi episodi che per altri invece sono gravi. Sembra più interessato a non creare distrazioni e problemi con la Lega nei giorni di approvazione del suo primo decreto importante, quello sul lavoro, piuttosto che sancire una distanza da Salvini su alcuni valori come il rispetto e l’antirazzismo.
A capo dell’area di sinistra e movimentista dei Cinque stelle c’è il presidente della Camera Roberto Fico, che non può lasciarsi andare più di tanto nell’espressione di un dissenso, ma in qualche modo lo dimostra con alcuni atti: ha incontrato in piazza Montecitorio gli attivisti pro migranti “Mani Rosse” e a loro ha detto che la Libia non è un porto sicuro, esattamente il contrario di quanto il ministro dell’Interno sembra assicurare.
Del resto, un contrasto forte sull’immigrazione nel Movimento è sempre esistito e si era evidenziato in maniera pubblica nel 2014, quando la richiesta di un paio di deputati di abrogare il reato di clandestinità era stata sonoramente bocciata dai due capi di allora, per paura di essere considerati troppo di sinistra, di perdere la neutralità che difendevano a tutti i costi su alcuni temi come l’immigrazione e diritti civili.
Un referendum tra gli attivisti aveva invece fatto emergere una maggioranza a favore dell’abolizione del reato: si era reso chiaro che il Movimento era fatto di varie anime e oggi una di queste, chi da sinistra ha votato Cinque stelle, che nei mesi scorsi magari faceva il tifo per un governo con il Pd, si starà interrogando sull’appiattimento di Di Maio nei confronti di Salvini.
Per ora, se esiste, è un dissenso che non ha ancora una voce forte.
A sinistra nella scorsa legislatura veniva schierato l’attuale ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Qualche giorno fa, citando Mattarella, ha ripetuto la frase “l’Italia non è un Far West”. Dopo l’estate dovrà dimostrare che non è lo è contestando l’ampiezza del diritto alla legittima difesa che Salvini vorrebbe dare alla legge, cavallo di battaglia della sua campagna elettorale, insieme all’immigrazione. Ne sarà capace?