Inizia ad Alexandria, in Virginia, il primo processo del Russiagate. Sul banco degli imputati salirà il 69enne lobbista, consulente politico e avvocato italoamericano Paul Manafort, l’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump che rischia l’ergastolo nell’ambito dell’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sulle ingerenze della Russia nelle elezioni presidenziali americane del 2016. Inchiesta che potrebbe finire per provare in maniera definitiva la natura fraudolenta e illegale della presidenza Trump se Mueller riuscirà a dimostrare che il presidente americano colluse con gli hacker di Vladimir Putin per sottrarre alla democratica Hillary Clinton la vittoria che tutti i sondaggi le davano per certa.
Manafort fu arrestato dall’FBI nell’ottobre del 2017 dopo che un gran giurì federale incriminò lui e il suo socio in affari Rick Gates. Le accuse contro Manafort, alcune relative al suo lavoro di consulenza per il governo filo-russo di Viktor Yanukovych in Ucraina prima che l’uomo di Putin fosse deposto nel 2014, sono gravissime. E includono reati quali cospirazione contro gli Stati Uniti, ostruzione alla giustizia, falsa testimonianza, riciclaggio di denaro, attività illecite di lobby, evasione fiscale e frode bancaria. Il processo, che si svolgerà in un tribunale federale di Alexandria e dovrebbe durare circa tre settimane, riguarderà esclusivamente crimini di natura fiscale e finanziaria.
Ad affrontare il voluminoso dossier politico – la presunta collusione con i russi per far vincere Trump – sarà un secondo processo che inizierà il prossimo 17 settembre a Washington. Gli avvocati di Manafort hanno fatto di tutto per sdoppiare il dibattimento – cioè per avere due processi invece di uno – dopo aver appreso che il processo originale contro Manafort sul Russiagate sarebbe stato celebrato nella capitale. “Sono certi che in Virginia, dove il partito repubblicano è molto forte, il loro cliente sarà giudicato da una giuria popolare più politicamente conservatrice e quindi benevola rispetto a Washington, dove il 93 per cento degli elettori nel 2016 scelse Hillary”, teorizza il sito web Politico.
Se la giuria di Alexandria non dovesse raggiungere un verdetto unanime sulla sua colpevolezza, Manafort potrebbe essere assolto. E ciò rafforzerebbe la tesi di Trump secondo cui il Russiagate è solo “una caccia alle streghe” politica. I repubblicani potrebbero tornare all’attacco per chiedere la testa di Mueller e Trump si sentirebbe autorizzato a ritirare fuori la carta del perdono presidenziale. Ma la scommessa dei legali di Manafort sembra perdente visto che, giorno dopo giorno, il cerchio intorno a Trump si stringe. Oggi persino i repubblicani in Congresso si oppongono alle minacce del presidente di licenziare Mueller di fronte all’enorme volume di prove che lo pongono al centro del Russiagate, burattino di Putin e insieme burattinaio della cospirazione anti-Hillary della sua campagna.
Ad aggravare la situazione di Manafort è la passerella di testimoni al di sopra di ogni sospetto che deporrà contro di lui: agenti dell’FBI e dell’IRS, l’agenzia delle entrate Usa, dirigenti della speciale unità anti-crimini finanziari del Ministero del tesoro. E soprattutto Rick Gates, il suo ex socio, conoscitore di ogni suo segreto, che si è dichiarato colpevole e sta collaborando con Mueller. Una scelta, quella di collaborare con l’FBI, che Manafort non farà mai, secondo molti, perché terrorizzato dalle possibili ritorsioni di Mosca contro di lui e la sua famiglia.
A complicare le cose sono poi le innumerevoli inchieste dei giornali americani, tra cui il lungo profilo firmato da Franklin Foer sull’Atlantic intitolato “Il maneggione americano: Il complotto contro l’America” che racconta come, decenni prima di dirigere la campagna elettorale di Trump, la brama di soldi e propensione per i più loschi affari di Manafort hanno spianato la strada all’attuale corruzione di Washington immortalata dalla serie tv House of Cards.
Prima di legare il suo destino a quello di Trump, Manaford è stato consulente delle campagne presidenziali di leader repubblicani come Gerald Ford, Ronald Reagan, George Bush padre e Bob Dole. Nel 1980 Manafort aveva co-fondato a Washington una società di lobbying insieme a Roger Stone, un altro protagonista del Russiagate, sospettato di aver collaborato con il fondatore di WikiLeaks Julian Assange che nella primavera del 2016 pubblicò le email sottratte da Mosca alla campagna presidenziale di Hillary Clinton per sabotarne le chance di vittoria.
Il curriculum vitae di Manafort assomiglia ad un thriller criminale. Manafort, che possiede numerose ville ed auto da corsa e ha uno stile di vita da nababbo, si è arricchito facendo per decenni pressioni illegali sui governi americani a favore di controversi leader stranieri come Yanukovych, l’ex dittatore delle Filippine Ferdinand Marcos, l’ex dittatore dello Zaire Mobutu Sese Seko e il leader guerrigliero angolano Jonas Savimbi. Secondo la legge americana per la registrazione degli agenti stranieri (FARA) il lobbismo per servire gli interessi di un governo straniero richiede di essere registrati presso il Dipartimento di Giustizia; tuttavia Manafort non si è preso la briga di registrarsi fino a quando non è stato beccato con le mani nel sacco. Ma ormi era troppo tardi.
La sua irrefrenabile propensione a violare le leggi è emersa anche di recente. Manafort era agli arresti domiciliari dopo aver pagato una cauzione da 10 milioni di dollari, quando la giudice Amy Berman Jackson ha deciso di spedirlo in carcere nel timore che potesse inquinare le prove. Secondo l’accusa, Manafort e un suo stretto collaboratore, Konstantin Kilimnik, avevano contattato due testimoni, i giornalisti Alan Friedman e Eckart Sager, tentando di convincerli a mentire sotto giuramento al processo testimoniando che lo stesso Manafort non aveva mai svolto attività di lobbying negli Stati Uniti per l’ex presidente ucraino Yanukovych, e che in realtà aveva svolto quell’attività di fiancheggiamento solo in Europa. L’accusa sostiene invece che Manafort si adoperò a Washington per presentare Yanukovich come un leader filo occidentale che meritava sostegno politico, invece delle sanzioni imposte contro di lui per abuso di potere.
Manafort, il cui nonno muratore emigrò in Connecticut nel 1919 e si chiamava Manaforte, (il cognome della madre è Cifalù) si sarebbe attivato presso quattro leader politici europei per promuovere gli interessi di Yanukovich a Washington. Uno di questi, secondo la ricostruzione dei media Usa è l’italiano Romano Prodi, due volte presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004. Secondo il New York Times nel marzo 2013 Prodi incontrò importanti membri del Congresso, assistito da Friedman e Sager, entrambi al soldo di Manafort. Più tardi, sempre secondo il Times, Friedman avrebbe aiutato Prodi a scrivere un editoriale pubblicato dal New York Times nel febbraio 2014, che difendeva Yanukovych sostenendo che l’uomo di Putin avrebbe potuto salvare l’Ucraina dal collasso e che i leader europei non avrebbero dovuto varare sanzioni contro di lui.
Il giorno successivo alla pubblicazione di quell’articolo, Yanukovych è fuggito dall’Ucraina tra le proteste di piazza del suo popolo e si è stabilito a Mosca.