La domanda più pericolosa della conferenza stampa seguita all’incontro ad Helsinki tra Donald Trump e Vladimir Putin è stata formulata a Trump da un giornalista della Associated Press: “Presidente, ma lei a chi crede?” Il tema è il Russiagate. Le due possibili risposte: le agenzie di intelligence americane o la parola di Vladimir Putin. Di fronte al mondo intero, il presidente Usa ha affermato, per l’ennesima volta, di credere all’innocenza di Putin nel Russiagate, smentendo così ben sette agenzie di Intelligence americane. Un’affermazione che ha sollevato un coro unanime di proteste negli States, con Trump tacciato di aver “colluso apertamente con il leader criminale di una potenza ostile“.
Secondo i servizi segreti Usa, Putin avrebbe condotto attacchi di vero e proprio terrorismo digitale ai danni dei Democratici, colpendo i sistemi informatici del partito, strappando ad Hillary Clinton la vittoria che tutti i sondaggi davano certa. Un assalto che si aggiunge agli innumerevoli crimini commessi dal dittatore russo. Dall’invasione della Crimea all’aggressione contro l’Ucraina; dall’omicidio di rivali politici, giornalisti e chiunque osi criticarlo – anche in suolo straniero come si è visto in Gran Bretagna – al suo ruolo chiave nel sostenere il sanguinario regime di Assad in Siria e sponsorizzare i movimenti di estrema destra nel mondo, dall’Ungheria all’Italia.
Il comportamento di Trump ad Helsinki è bollato come “tradimento” e non solo dall’ex direttore della Cia, John Brennan . A peggiorare le cose il New York Times rivela come Trump fosse stato avvertito nei dettagli dell’attacco informatico ordinato personalmente da Putin già prima dell’inaugurazione nel gennaio 2017. Insomma, per due anni Trump ha mentito alla nazione definendo “caccia alle streghe” l’indagine dell’FBI, pur conoscendone nei dettagli la legittimità.
Il termine “treason” (tradimento della Patria) fa la sua ricomparsa. Non accadeva dai tempi di Benedict Arnold, un generale americano durante la Guerra d’indipendenza che nel 1780 tradì la causa rivoluzionaria e passò nel campo britannico. “È come se, dopo Pearl Harbour, Franklin D. Roosevelt avesse detto: “Anche noi siamo colpevoli, spiega sul New York Times Thomas Friedman, parafrasando le parole di Trump ad Helsinki secondo cui “è anche colpa dell’America se Putin l’ha attaccata”.
Tutti tornano sulla questione del “kompromat”, ovvero sulle molto compromettenti informazioni personali e finanziarie che consentirebbero a Putin di muovere Trump come un suo burattino. Il New York Magazine avanza l’ipotesi, documentandola, che Trump sia da anni una spia al soldo dei russi. Putin è accusato di appoggiare forze politiche anti-europeiste e anti-Nato, nel tentativo di indebolire la democrazia in Occidente, soffocando le ondate progressiste. Ad alimentare la love story con Trump è la comune avversione per la democrazia. Donald e Vladimir sono alleati perché stanno giocando la stessa partita a favore del rinascente nazionalismo autoritario. I due “colludono” per rendere il mondo meno libero. Con l’aiuto dei servizi segreti russi e del partito repubblicano.
“Il partito repubblicano ha fatto di tutto per sabotare l’indagine sul Russiagate del procuratore speciale Robert Mueller “, accusa Michael Gerson, repubblicano di ferro ed ex speechwriter di George W. Bush secondo cui il partito di Reagan è diventato uno strumento in mano a Putin e un ostacolo alla protezione e salvaguardia dell’America”. Non è un’esagerazione. Basti pensare che la 29enne spia russa Maria Butina, arrestata nei giorni scorsi a Washington e in carcere senza cauzione è accusata di aver infiltrato i vertici del partito e di essere andata a letto con il congressman pro-Putin Dana Rohrabacher e con altri pezzi grossi repubblicani.
Gerson è uno degli innumerevoli intellettuali e giornalisti repubblicani (ma anche tantissimi elettori normali) che hanno abbandonato il partito e adesso esortano il paese a votare per i democratici a novembre onde evitare la deriva autoritaria che rischia di trasformare l’America nell’incubo ipotizzato da Philip Roth nel best-seller “Il complotto contro l’America”. Il partito, a causa di queste defezioni, si è notevolmente rimpicciolito.
Intanto deputati e senatori repubblicani tornano a comportarsi come se nulla fosse. Rifiutandosi di avvallare le richieste della minoranza democratica al Congresso che da mesi chiede una legge per proteggere l’indagine Mueller, che Trump ha minacciato più volte di licenziare. L’indignazione post-Helsinki dei repubblicani è durata insomma poche ore. Un po’ come era successo dopo gli incidenti di Charlottesville, dove un’auto si era schiantata sulla folla di pacifisti durante la marcia dei suprematisti bianchi, uccidendo una donna e ferendo 30 persone che protestavano contro la manifestazione nazista e Trump si rifiutò di condannare esplicitamente i neonazi bianchi parlando invece di “violenza da molte parti” e fu applaudito per questo dall’ex leader del Ku Klux Klan, David Duke. Stesso copione quando lo scorso dicembre Trump appoggiò la candidatura al Senato per l’Alabama di Roy Moore, un ex giudice ultraconservatore accusato di avere molestato sessualmente delle ragazze minorenni.
E’ la metamorfosi in senso sempre più conservatore e autoritario di un partito che non ha più niente a che fare con l’approccio moderato e centrista che aveva prevalso per decenni a Washington. Chi non è d’accordo abbandona la scialuppa, gli altri, gli Zelig della rivoluzione trumpiana come Steven Miller e Sebastian Gorka , fanno carriera. Per capire lo spostamento verso l’estrema destra del partito basti pensare che in oltre una mezza dozzina di gare elettorali, a novembre, il partito repubblicano sarà rappresentato da un suprematista bianco, da un neonazi o da un negazionista dell’olocausto.
Neppure l’addio trumpiano all’accordo di Parigi – accordo caldeggiato ed amato dal capitalismo Usa – o lo strazio dei bimbi migranti piega i repubblicani. Gli scioccanti insulti e le minacce di Trump contro i leader europei e la Nato durante la sua recente tournée europea hanno spinto il partito di maggioranza a varare una timida mozione di appoggio alla Nato. Un gesto simbolico e non vincolante visto che il partito ormai privo di spina dorsale vive nel terrore di contraddire il presidente .
Perché questa paura? La risposta è semplice e insieme raccapricciante. Perché la lista di provocazioni, gaffe e soprattutto bugie (una media di 6 al giorno secondo stime ufficiali) non ha smosso di una virgola il sostegno accordato dagli elettori repubblicani al presidente. Grazie soprattutto all’aiuto di FOX News, vero e proprio ministero della propaganda Trumpiana (difficile da spiegare agli italiani, visto che neppure le tv di Berlusconi si sono spinte a tanto) e oggi l’emittente televisiva più seguita d’America.
Nell’ultima indagine demoscopica Gallup a fine giugno Trump sfiorava il 90% dei consensi tra gli elettori che ancora si definiscono repubblicani. Per ritrovare un presidente repubblicano così popolare tra i suoi bisogna risalire a George W. Bush nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre 2001, che creò una forte coesione tra il leader e la sua base.
Il dissenso interno non esiste, visto che le uniche critiche vengono da gente come il senatore dell’Arizona John McCain, che sta morendo di cancro al cervello e da due senatori senior, Jeff Flake dell’Arizona e Bob Corker del Tennessee, che hanno deciso di non ricandidarsi alle prossime elezioni parlamentari e quindi non dovranno confrontarsi con l’ira del popolo trumpiano. Trump ha dimostrato di essere ancora in grado, con un semplice tweet, di spostare parecchi voti. Lo ha fatto di recente, contribuendo a far perdere Mark Sanford, candidato alle primarie in South Carolina che aveva osato criticarlo.
La morte del partito repubblicano secondo gli addetti ai lavori è imminente . “I repubblicani sanno che la loro fine è vicina”, ha scritto un famoso attivista per i diritti dei gay, “e stanno comportandosi come sciacalli dopo un terremoto. Saccheggiando il supermercato per razziare gli scaffali prima dell’ Armageddon”. Per questo, nonostante Trump potrebbe presto essere incriminato da Mueller, sono decisi a fargli consacrare la nomina del giudice Brett M. Kavanaugh alla Corte Suprema, il più importante organo giuridico del paese. Kavanaugh dovrebbe prendere il posto del giudice Anthony Kennedy, considerato per anni “l’ago della bilancia” della Corte, che si è dimesso.
Se sarà approvata dal Senato, la nomina di Kavanagh sposterà a destra gli equilibri politici della Corte – e quindi degli Stati Uniti – per i prossimi decenni. Kavanaugh diventerebbe il secondo giudice della Corte Suprema scelto da Trump in meno di due anni di mandato. Il precedente è stato Neil Gorsuch, anche lui ultraconservatore e con idee nei sondaggi altrettanto minoritarie rispetto alla maggioranza del paese su temi quali l’aborto, l’assistenza sanitaria, il diritto dei gay e delle minoranze.
Se i repubblicani avranno la meglio e il dossier di Mueller arriverà sul tavolo di Kavanaugh, tutti sanno già come andrà a finire visto che in una precedente sentenza il giudice si è dichiarato contrario alla figura dell’investigatore speciale alla Mueller , dicendosi “pronto ad eliminarla per sempre”. Ed è proprio per questo che è stato scelto da Trump.