Un film horror si aggira per la Cina. Il suo titolo è Jiangshi Qiye, “imprese zombie”. Sono infatti loro – le industrie inefficienti tenute finora artificialmente in vita per ragioni di opportunità politica – che spaventano la leadership di Pechino. Tant’è che il premier Li Keqiang ha finalmente deciso di dichiararvi guerra a partire dal 2016.
Il terreno si preparava da tempo, con discorsi pubblici di alti funzionari e articoli di giornale che identificavano le aziende che producono troppo e male come le grandi colpevoli del rallentamento economico. Poi, la settimana scorsa, è arrivata la parola del premier: “Dovremmo accelerare il processo di eliminazione delle imprese e delle industrie zombie arretrate, migliorando le prestazioni e l’efficienza nell’allocazione delle risorse”, ha detto Li a un incontro di economisti. Le dichiarazioni sono arrivate mentre si sta preparando la conferenza economica annuale – appuntamento che di solito getta le basi per l’anno successivo – e suggeriscono che la leadership è determinato a portare avanti la ristrutturazione della seconda più grande economia del mondo.
Per capire meglio, prendiamo l’esempio dell’acciaio. La Cina ne produce 800 milioni di tonnellate l’anno, quattro volte di più di quanto qualsiasi altro Paese sia mai stato in grado di fare; il settore siderurgico ha una sovraccapacità di circa 400 milioni di tonnellate, nonostante ferrovie veloci e grandi progetti sulla Via della Seta, che in teoria dovrebbero divorare acciaio. Oltre a fomentare le accuse di dumping da parte dell’Europa, questo è uno dei più chiari esempi di inefficienza della vecchia struttura industriale cinese, che ora la leadership di Pechino sembra determinata a voler cambiare.
Ammazzare gli zombie, non significa necessariamente chiudere le vecchie industrie in toto o smantellare i grandi conglomerati di Stato. Il premier Li ha infatti detto che le nuove opportunità di lavoro create dalle industrie emergenti permettono ora di accelerare il “potenziamento” delle industrie tradizionali, riportano i media di Stato. Tale “potenziamento” consiste per lui nell’introduzione di standard tecnici, di sicurezza, ambientali e di consumo energetico; nell’offrire sostegno finanziario a fusioni e acquisizioni. Insomma, eliminare sprechi e inefficienze, snellire.
È una linea guida del tutto coerente con la transizione cinese, il tentativo di trasformare la “fabbrica del mondo” in economia avanzata, trainata da innovazione, tecnologie, servizi e consumi interni.
Il fatto è che nell’ultimo trimestre, la crescita si è attestata su un 6,9 per cento che sarebbe un miracolo dalle nostre parti, ma che per la Cina è invece il peggior risultato dall’inizio del 2009, quando ci trovavamo in piena recessione globale. I dati della scorsa settimana hanno inoltre mostrato che i profitti dell’industria sono diminuiti del 4,6 per cento a ottobre rispetto a un anno fa, in calo per il quinto mese consecutivo a causa della bassa domanda e dall’eccesso di offerta.
Fin qui c’è la razionalità del disegno. Il problema però è il “come”. Sul fronte dello smantellamento dei vecchi apparati, i problemi sono enormi, ma non insormontabili. Le resistenze delle consorterie che si nascondono all’interno delle imprese improduttive, la rete delle clientele, sono costantemente prese di mira dalla campagna anticorruzione.
Più grave è il problema delle comunità operaie che ancora dipendono dal lavoro industriale tradizionale. Il lifting ai settori improduttivi può provocare licenziamenti di massa della forza lavoro poco qualificata, creando instabilità e suscitando quindi l’opposizione degli stessi funzionari locali che dovrebbero metterle in pratica. Tuttavia, la Cina ha già vissuto e superato qualcosa del genere tra il 1998 e il 2002, quando l’allora premier Zhu Rongji mise in atto una ristrutturazione delle grandi imprese statali su così vasta scala che circa sei milioni di persone persero il lavoro.
Quando Li Keqiang parla delle opportunità di lavoro create dalle industrie emergenti, si riferisce soprattutto alla grande crescita del settore dei servizi, che ormai è quello dominante in Cina. Secondo statistiche ufficiali, la sua quota del prodotto interno lordo è cresciuta dal 44 per cento del 2010 al 51,6 per cento dei primi tre trimestri di quest’anno. Essendo un settore ad alta intensità di lavoro, dovrebbe assorbire gli esuberi dell’industria, soprattutto nel segmento a basso valore aggiunto.
Il problema, semmai, è che sembrerebbe ancora latitante l’altro piedistallo della transizione: i consumi. Rispetto a quella dei servizi, la loro crescita è per ora molto più lenta. Dopo aver toccato il minimo del 36 per cento del Pil nel 2010, la quota dei consumi privati è aumentata lentamente fino al 38 per cento nel 2014. La crescita dei servizi ma non dei consumi si spiega con i risparmi del ceto medio urbano, le formichine cinesi. Nonostante le Lamborghini e i Rolex dei nuovi ricchi, nonostante la costante crescita dei salari di più o meno tutti, parrebbe che la leadership non sia riuscita a dare ancora alla grande massa la fiducia necessaria per spendere e spandere. Se nel 2004 il tasso di risparmio urbano era del 24 per cento, nel 2014 era salito al 30 per cento.
Si tratta soprattutto dell’atteggiamento precauzionale di una popolazione che invecchia, perché il sistema del welfare – sanità e pensioni – è ancora insufficiente. Il prossimo piano quinquennale 2016-2020 si propone di affrontare questo problema, unificando i sistemi in vigore ed estendendo la copertura pensionistica a tutta la popolazione cinese, Solo così, i consumi potranno fare da traino all’economia cinese e si potranno pensionare le fabbriche zombie senza paura di fare un salto nel vuoto.