La vittoria di Andrés Manuel Lopez Obrador, AMLO, per oltre 30 punti di distanza rispetto al secondo arrivato ha dimensione storica. Non solo perché sarà il primo presidente espressione dalla sinistra messicana, ma perché è stato il catalizzatore di una vera e propria rivolta dei messicani contro lo stato delle cose che si è concretizzata nel voto al candidato “pulito”, diverso e fuori dal “giro” che ha governato il paese negli ultimi 20 anni.
In Messico non ha vinto infatti il voto ideologico, che sicuramente c’è pure stato, ma la differenza l’hanno fatta i cittadini arrabbiati e soprattutto i millenials, un terzo della popolazione messicana, che si sono riversati in massa a votare Obrador, come si era già verificato in Gran Bretagna per Corbyn o negli Stati Uniti per Sanders. Un voto disperato, di chi non vede di fronte a se un futuro che non sia fatto di lavoro precario o in fuga all’estero e che teme una violenza fuori controllo che può colpire chiunque.
Il Messico ha infatti il triste primato dei morti ammazzati, sopra diversi paesi in guerra. Sono numeri difficili da stimare, ma agghiaccianti. Negli ultimi 15 anni la lotta alla droga ha prodotto oltre 120.000 morti e circa 70.000 desaparecidos. Senza che la giustizia venga a capo di nulla, con i Cartelli più forti di prima e i rappresentanti dello Stato e della politica corrotti e collusi. Per questo la promessa di Lopez Obrador, ex popolare Sindaco di Città del Messico, di fare piazza pulita della corruzione e dei cartelli della droga ha riscosso tanto successo. Perché è credibile in quanto politico fuori dal gregge e perché la situazione non potrebbe peggiorare oltre. Ma AMLO non è un populista di nuova generazione.
Il suo bagaglio politico risale ai valori e alle idee della sinistra nazionalista latinoamericana, con forti convinzioni stataliste in un paese che ha subito pesanti riforme in chiave neoliberale promosse dal partito erede della Rivoluzione, oggi quasi scomparso. Non è detto nemmeno che rompa con gli Stati Uniti, da cui dipende l’80% del commercio estero del paese. Il Nord America geografico, USA, Canada e Messico, è una delle aree al mondo più integrate dal punto di vista produttivo e gli scossoni prodotti dalle politiche, perora solo annunciate, di Donald Trump di ridiscutere l’accordo Nafta trovano pochi spunti realistici.
Lopez Obrador ha già rilanciato su quel tema, promettendo che si farà promotore di un cambio di marcia del discutibile accordo firmato nel 1994, e cioè proporrà che si passi dal solo scambio di merci a un patto per lo sviluppo seguendo l’ispirazione di John F Kennedy che negli anni ’60 lanciò l’Alleanza per il Progresso. Il punto principale della proposta di AMLO è però concentrare risorse tra i soci del Nord per favorire lo sviluppo del Centro America, una terra scossa da conflitti sociali e preda delle gang criminali da dove provengono la maggior parte dei migranti che vorrebbero entrare negli Stati Uniti. Il Centro America è la Libia degli Stati Uniti, e a Washington lo sanno.
Amlo non passerà inavvertito, questo è sicuro. Non sarà un semplice burocrate al servizio dei poteri forti e criminali del Messico che abbassa la testa davanti a Donald Trump. E’ l’unico che potrebbe riuscire a fare tornare a ragionare gli Stati Uniti in termini di partenariato e non di chiusura. Una sfida forse maggiore rispetto a quella della lotta alla corruzione interna già annunciata come priorità. Il Messico democratico ha detto basta con il voto, e per la prima volta ha premiato la sinistra. Una responsabilità storica.