Pochi giorni fa il Ministro dell’Interno Matteo Salvini si è recato in Libia e lì ha fatto una breve visita in un centro d’accoglienza ancora vuoto, pronto ad aprire nei prossimi giorni grazie alla collaborazione del personale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Quella visione così pulita e limpida di un centro situato a Tripoli, a due passi dal palazzo del governo, è stata sufficiente per convincere Salvini che quello sia un esempio classico di quanto accade in Libia. La realtà è ben diversa e se quella visitata da Salvini è una struttura che vede la collaborazione dell’ONU, lo stesso non si può dire per le altre strutture disseminate in tutta la Libia, veri e propri campi di prigionia dove la tortura è all’ordine del giorno.
A confermarlo è Medici Senza Frontiere, che anche nella sede di Roma si trova a gestire quotidianamente vittime di tortura in arrivo proprio dalla Libia. Abbiamo intervistato Gianfranco De Maio, uno dei dottori della sede romana di Medici Senza Frontiere, che ci ha confermato le statistiche e ci ha spiegato in cosa consiste il suo lavoro con le vittime di tortura.
Lei ha incontrato molte persone che sono state vittime di tortura. Volevo da lei una sua testimonianza su queste persone: di cosa soffrono, cosa sono state costrette a subire sia fisicamente sia psichicamente.
Le persone che riceviamo sono dei migranti, delle persone che hanno avuto trattamenti inumani e degradanti, torture nei Paesi di origine per la metà dei casi e per l’altra metà dei casi durante le rotte migratorie, quindi nei Paesi di transito in Asia meridionale, in Africa settentrionale e in America Latina. Quello di cui soffre la vittima di tortura è essenzialmente la rottura dei legami sociali precedenti. La vera riabilitazione è una riabilitazione sociale, di cui l’aspetto medico e quello di salute mentale sono delle componenti essenziali, ma non esaustive. La riabilitazione è solo la creazione di nuovi legami sociali, una inclusione nelle società dove queste persone vogliono e possono andare a vivere.
Quali sono esattamente le rotte e gli angoli del Mondo da dove arriva la maggior parte delle persone che oggi subiscono torture?
Il Marocco e la Libia, decisamente. L’altra è la Turchia, la zona dell’Asia meridionale per quel che riguarda Atene e la linea ferroviaria del Latinoamerica verso gli Stati Uniti. Io sono un testimone oculare perchè queste persone le vedo tutti i giorni e quando qualcuno si permette di parlare di retorica della tortura, io posso smentirlo come testimone professionista. La tortura esiste purtroppo, esistono gli atteggiamenti protezionisti negli Stati Uniti e in Europa che tengono un po’ a banalizzare l’argomento. Questo purtroppo la favorisce perchè non funziona come deterrente. Là dove la tortura si pratica, si praticherà ancora di più sia da parte dei governi sia da parte delle milizie come in Libia. In Libia la tortura è la prassi, e lo vediamo non perchè ce lo dicono i satelliti, ma perchè incontriamo le persone che sono riuscite a fuggire da quell’inferno. E ci sono delle stime che arrivano fino all’80% dei migranti che arrivano dalla Libia. Noi non possiamo dire quanti sono, ma possiamo parlare di quelli che vediamo.
Come è organizzato il vostro lavoro? Lei ha detto che 200 persone sono arrivate nel centro in questi anni.
L’obiettivo è l’approccio interdisciplinare, che è il superamento del multidisciplinare. Il multidisciplinare sarebbe il medico, lo psicologo, l’assistente sociale, il fisioterapista e l’operatore legale che lavorano insieme. Non è che decide lo psichiatra quello che si fa, non ci può essere una leadership dello psichiatra per una cosa del genere, proprio perchè la malattia mentale non è il centro del problema.
Quali sono le torture che hanno dovuto subire queste persone?
Si tratta di violenza fisica, botte, scariche elettrice, deprivare il sensorio, non far vedere la luce, privarli del cibo.
Quante persone riescono a superare questi traumi? C’è possibilità per loro di ricominciare dimenticando quello che è successo?
Dimenticare è impossibile. Bisogna riuscire a vivere nonostante, quindi attivando dei meccanismi di compensazione, concentrandosi molto sul presente, avere un presente positivo e quindi un futuro possibile, accettabile e vivibile.