Vi è un timore diffuso nel Sud-Est asiatico e preoccupazione da parte di organizzazioni umanitarie internazionali che con la fine della stagione delle piogge e dei tifoni si riavvii l’esodo dei boat-people birmani e bengalesi dopo la crisi dello scorso anno.
Purtroppo i network dei trafficanti sono ancora operativi e le condizioni in loco ugualmente problematiche rispetto a un anno fa. Solo, le frontiere sono più chiuse all’accoglienza o al transito. In compenso, l’impegno contro i trafficanti tra aprile e maggio scorsi – che ha avuto come conseguenza un’ondata di boat-people abbandonati nel Mare delle Andamane perché già in viaggio e impossibilitati a sbarcare dal blocco delle coste thailandesi e quello, presto rientrato, delle coste malesi e indonesiane – ha creato solo difficoltà momentanee alle bande che predano su migranti economici dal Bangladesh e sui Rohingya in fuga dalla persecuzione in Myanmar.
La nuova ondata di profughi non dovrebbe superare le migliaia della stagione passata, tuttavia – avvertono gli esperti – non va sottostimata per potere approntare sia meccanismi di prevenzione, sia strutture di accoglienza nei paesi di destinazione (abitualmente a musulmana Malaysia), sia per evitare ulteriori perdite di vite umane. Al momento, le autorità dei paesi interessati sembrano in grave ritardo, ma almeno – dopo la scoperta dei campi di detenzione abbandonati in tutta fretta dai trafficanti al confine thailandese-malese, con fosse comuni contenenti i resti di decine di individui – i governi su cui pesa anche una forte pressione internazionale non possono più semplicemente fingere di non sapere. In Thailandia, l’hub continentale della tratta di esseri umani, l’azione repressiva – sotto vigilanza internazionale e pena l’imposizione di sanzioni – si è fatta concreta e va sempre più coinvolgendo connessioni e compiacenze locali, con decine di arresti finora, tra cui un generale.
Comunque, una situazione generale che non autorizza all’ottimismo per i prossimi mesi.
Al punto che il 1° dicembre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) ha chiesto “piena collaborazione” alle nazioni del Sud-Est asiatico affinché cerchino soluzioni condivise e concrete per affrontare la possibile ondata migratoria, attesa con la fine della stagione dei monsoni e dei tifoni.
Chiesto di trattare i profughi – in fuga dalla persecuzione in Myanmar e alla ricerca di benessere dal Bangladesh – in modo umano ed evitare iniziative improvvisate che li condannino non solo a rischiare la vita, ma anche a mettersi nelle mani dei trafficanti per superare gli ostacoli posti dai governi al loro arrivo o al loro transito.
Lo scorso anno, dopo che la chiusura improvvisa delle frontiere marittime e terrestri da parte della Thailandia aveva costretto al largo per giorni e settimane migliaia di boat-people, Malesia e Indonesia avevano accettato di accoglierne almeno 4.000 per dodici mesi, con il coinvolgimento economico e operativo dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati e altre organizzazioni. Centinaia si ritiene siano morti in mare, rimasti senza carburante e acqua o dopo un naufragio.
Nonostante l’impegno dei paesi coinvolti dall’esodo a contrastare le reti di trafficanti che da almeno due anni gestiscono la fuga via mare e via terra di individui perlopiù di fede islamica verso la musulmana e finora accogliente Malaysia e, in via subordinata, verso Indonesia e Australia, i rischi per chi dovesse riprendere il mare restano elevati. Anche per questo, oltre a chiedere ai governi locali di non respingere chi dovesse arrivare sulle loro coste, l’Iom auspica che vengano aperte vie più dirette verso i paesi di destinazione e predisposti campi in cui procedere all’accoglienza, al riconoscimento dello stato di rifugiato e aprire una prospettiva di ricollocazione altrove. Evitando, ad esempio, l’imbarco su natanti dei trafficanti e lo sbarco sulle coste della Thailandia, paese che non ha firmato la Convenzione Onu sui rifugiati.
Indubbiamente, al centro del flusso massiccio di boat-people, sta anzitutto la condizione dei Rohingya, popolazione musulmana di 1,3 milioni di individui, ugualmente privata di cittadinanza in Myanmar e Bangladesh, con complessivamente mezzo milione costretti a vivere in condizioni aberranti in campi profughi ai due lati del confine.
Una crisi regionale potrebbe essere il risultato della discriminazione che organizzazioni internazionali indicano come “sistematica”. Crisi che i dieci paesi membri dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico) non sono preparate a affrontare. A lanciare l’allarme sono stati anche, a novembre, i parlamentari Asean impegnati per i diritti umani, un gruppo transnazionale che negli ultimi tempi ha fatto sentire concretamente la sua presenza intervenendo in diverse questioni interne ai diversi paesi membri come pure quelli che coinvolgono più nazioni.
“L’Asean si è confrontata lo scorso maggio sulla crisi dei profughi, ma purtroppo ha evitato di discutere le ragioni dell’esodo, che hanno radici nello stato Rakhine”, ha segnalato il parlamentare malese e presidente dei Parlamentari Asean per i dritti umani, Charles Santiago. “I leader Asean nascondono la testa nella sabbia ma questo si ritorcerà contro di loro”, ha indicato Santiago alla presentazione dell’ultimo rapporto del gruppo: Disenfranchisement and Desperation in Myanmar’s Rakhine State: Drivers of a Regional Crisis (Alienazione e disperazione nello stato Rakhine del Myanmar: Ragioni di una crisi regionale).
A chiarire che questa minaccia è concreta, anche Amnesty International. I trafficanti di esseri umani, ha avvertito l’organizzazione umanitaria con sede a Londra, sono pronti a riprendere la loro pratica brutale in tutto il Sud-Est asiatico e ha segnalato gli “orrendi” abusi a cui rischiano di andare incontro ancora una volta i boat-people in fuga dal Rakhine e dalla persecuzione fomentata dagli estremisti buddhisti con il sostegno delle autorità che negano loro cittadinanza e diritti, lasciando come uniche alternative i campi profughi interni o l’emigrazione clandestina.