“Tratto da una storia vera” è una dicitura che al cinema si usa pressoché da sempre, e che va a braccetto con il filone del cinema biografico. La serialità televisiva la sta scoprendo e sfruttando intensamente negli ultimi anni, con il moltiplicarsi di miniserie o serie antologiche che concludono la propria narrazione nel giro di pochi episodi.
“Tratto da una storia vera” è qualcosa che di solito si dice per dare una patente di legittimità, un alone d’importanza e pure un sigillo di credibilità a quel che si sceglie di mettere in scena, ma ogni tanto capita di incappare in una vicenda talmente incredibile da resistere a ogni rassicurazione: meglio farci un documentario, allora, piuttosto che una fiction, meglio agganciarsi alle testimonianze dirette, ai materiali di repertorio, ai telegiornali dell’epoca, così che nessuno metta in dubbio l’autenticità dei fatti.
Questo è il caso di Wild Wild Country, docu-serie in sei episodi disponibile da qualche settimana su Netflix e che ha immediatamente generato un passaparola irresistibile tra gli spettatori. Realizzata dai fratelli Chapman e Maclain Way, e prodotta da altri due fratelli, la coppia d’oro del cinema iper-indipendente americano Jay e Mark Duplass, presentata al Sundance Festival 2018, Wild Wild Country ritorna all’inizio degli anni 80 per raccontare di quando un folto gruppo di adepti del guru indiano Baghwan Shree Rajneesh – oggi noto come Osho – decise di stabilirsi in massa negli Stati Uniti, per la precisione in una minuscola cittadina dell’Oregon, fino a quel momento abitata da sole 40 persone.
Vestiti di sfumature di rosso, i sannyasin (come si fanno chiamare) acquistano legalmente un ranch e il circostante terreno, e costruiscono letteralmente dal niente un’intera e florida città: per gli abitanti locali e per i media statunitensi sono un’inquietante “setta del sesso”, mentre loro si definiscono avanguardia di una rivoluzione esistenziale e spirituale, una comunità utopica dove chiunque possa vivere in pace, armonia e serenità. Il trailer di Wild Wild Country promette “colpi di scena incredibili” e una carica di assuefazione molto alta, e non mente: la storia – in cui presto assume un ruolo prominente la segretaria del guru, Ma Anand Sheela, personaggio insieme affascinante e inquietante, che i documentaristi sono riusciti a intervistare in esclusiva – diventa presto un thriller ad alta tensione, che prevede largo uso di armi, tentati omicidi, avvelenamenti, svariati atti illegali, in un’escalation di assurdità da lasciare senza fiato.
Se non fosse un documentario, difficilmente potremmo credere a Wild Wild Country quando ci dice di essere “una storia vera”, un po’ come era successo con un altro simile prodotto Netflix di qualche anno fa, Making a Murderer. Naturalmente, soprattutto in casi come questi, bisogna ricordarsi che il modo di raccontarci una storia conta quanto la storia stessa: ma, a differenza di Making a Murderer, Wild Wild Country rifiuta di prendere una posizione univoca, lasciandoci sempre il compito di decidere da che parte stare.
D’altronde, entrambe le fazioni vogliono il proprio personale paradiso nel Nuovo mondo, sventolando il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, da difendere con ogni mezzo necessario: non è forse la definizione stessa di “sogno americano”?