I risultati delle elezioni ungheresi di domenica scorsa parlano chiaro. La maggioranza dell’opinione in Ungheria è per contraria a un’ipotesi europeista, avverte l’Europa e le politiche di aiuto alle emigrazioni come un pericolo per la propria identità. Europa è per l’opinione pubblica ungherese essenzialmente panico.
Ricordiamolo: un voto che non solo genericamente dal timore dell’invasione, ma che ha fatto propria la retorica del complotto, che in forma plateale, comunque non trasversale, ha adottato una retorica e un cesto di motivazioni che pescano nell’antisemitismo e nell’ideologia dei Protocolli dei Savi anziani di Sion (la campagna contro Soros è intrisa di linguaggi, immagini, parole che discendono direttamente da quel testo); che vive di un forte senso di rancore nei confronti di un’Europa che accusa di essere senza carattere e che assume linguaggio, parole, immagini e forme della comunicazione che non sono uniche in Europa.
Fortemente presente in gran parte dell’Europa ex sovietica (in Polonia, in Slovacchia, in Boemia) lo stesso linguaggio ritorna in molte lingue politiche della destra e della nuove destre in Europa: in quelli che si dichiarano paladini di una cultura intrisa di nazionalismo, ma anche nelle nuove destre.
Torna nella capacità di diffusione di un linguaggio dell’odio che è la vera novità di una parte crescente delle destre in Europa: in Francia, in Germania, in Austria, ma anche in Italia.
Prima conclusione: in Ungheria non è accaduto niente che in gran parte non sapessimo già. Ma è un fatto che ancora riteniamo che questo dato costituisca un’eccezione.
Non è un’eccezione.
La fisionomia di questo voto e la sua fisionomia non è un incidente di percorso. Ha invece caratteri strutturali e anche ha un radicamento nella storia culturale dell’idea di Europa.
Osservava lo storico Marc Bloch a metà degli anni ’30 in una realtà culturale e politica che pur con le debite differenze, con la situazione di oggi in più punti «fa la rima», che la nozione di Europa si fonda su una nozione di panico. Panico che costituisce non tanto la condizione del vissuto politico dell’Europa ma la ragione che essa narra a se stessa della sua individualità storica. Uno stato d’animo, o meglio una scala di sensibilità sulla quale l’Europa ha costruito la sua stessa fisionomia territoriale. In questo senso secondo Bloch la coscienza storica dell’Europa trova la sua ragion d’essere nella fisionomia immaginaria del “mondo chiuso”.
Più recentemente ha detto di recente Zygmunt Bauman nel suo Retroptopia (Laterza) che il mondo non potendo pensare futuro, preferisce immaginare passato.
E’ una buona fotografia, ma come tutti i fermo immagine se ci restituisce l’istantanea di un momento non ci illumina sul senso e sul perché di un percorso.
Per cercare di comprenderlo, dobbiamo guardare a un processo di revisione che in Europa è in corso da tempo. Forse non solo in prossimità della scadenza elettorale della primavera 2019 quando andremo a rinnovare il Parlamento europeo, non sarebbe sbagliato provare a tirare un bilancio dei trent’anni di dopo muro.
Abbiamo pensato l’Europa all’inizio degli anni ’90 del Novecento come la forma ritrovata di una vocazione democratica finalmente trovata. Se trent’anni dopo una parte consistente, soprattutto una parte geograficamente definita ha profondi sentimenti antieuropeisti –in questo inclusa una parte consistente dell’opinione pubblica in Italia- non è solo dovuto alla crisi economica. E’ dovuto anche al percorso che è stato adottato da molti verso l’idea di Europa: una sorta di utopia della felicità che prometteva benessere rispetto alle inquietudini o alle debolezze della propria storia nazionale.
E’ indubbio che per molti Europa ha significato affidamento a una «sorte buona», all’idea di riscatto rispetto a un passato prossimo e a un presente avvertito come opprimente. Europa era il percorso , soprattutto nell’Europa dell’ex-blocco sovietico, per ritrovare la propria autonomia, la propria identità oppressa. Europa non era aderire a un progetto sovranazionale in cui si entrava per costruire una casa comune, da cui si riceveva, ma anche si doveva dare molto. Europa era vissuta come un’opportunità per ritrovare la propria autonomia nazionale, fino ad allora violata, non riconosciuta, per dare una chance alla propria identità, finalmente.
Trenta anni dopo Europa agli occhi e nel cuore di una parte consistente dell’Europa non è diverso da quell’oppressore da cui ci si è sottratti anni fa. Non potendo, questa volta, prendersela con il comunismo, l’orgoglio nazionale riscopre i nemici di sempre: gli antinazionali, gli stranieri, i poteri stranieri, che complottano contro la loro felicità, gli ebrei.
L’Europa del panico, bisognosa di capri espiatori su cui riversare le proprie ansie, e in cui riconoscere la causa del proprio malessere, riprende a circolare nel sentimento profondo di una parte consistente, numericamente minoritaria, ma non irrilevante dell’Europa. Non è l’AntiEuropa. E’ l’altra Europa, o meglio un’altra idea di Europa che ha tradizione, cultura, e storia profonda nel cuore del continente europeo. Non è un estraneo tra noi. E’ una parte consistente dell’idea e del sogno europeo, antieuropeista, con cui coloro che si ritengono gli eredi di Spinelli e di Adenauer, di Rossi, di De Gasperi e di Schumann devono fare i conti.