Ha fatto molto discutere il caso di Giada, studentessa dell’Università di Napoli iscritta alla facoltà di Scienze Naturali che nel giorno della laurea si è lasciata cadere dal tetto di uno degli edifici del complesso universitario della città partenopea.
Nel cordoglio, le ricostruzioni hanno attribuito il gesto di Giada alla difficoltà che la giovane avrebbe provato nell’ammettere ai propri cari e ai conoscenti che lei, contrariamente alle loro aspettative, non sarebbe stata parte degli studenti celebrati quel giorno perché a tal punto in ritardo con gli esami da preferire un gesto estremo al timore di affrontare la loro delusione.
Forse il caso di Giada sarebbe scomparso nella cronaca locale non fosse che Giada non è l’unica studentessa, negli ultimi mesi, ad aver scelto un epilogo in apparenza così sproporzionato e incomprensibile.
Il portale Skuola, non a caso, ha ricostruito i casi di studenti o studentesse che, negli ultimi mesi, non sono riusciti a reggere il peso di non aver saputo far fronte agli obiettivi accademici, al punto da scegliere il suicidio come forma estrema di fuga dalle conseguenze potenziali della scandalosa ammissione. Il portale ricorda il caso di un 27enne di Chieti, che ha optato per lo stesso gesto piuttosto che rivelare ai propri genitori di essere ancora lontano dalla laurea. Lo stesso copione vale per il ventiduenne laureando in Ingegneria all’Università di Ferrara, che ha scelto per il tragico epilogo i binari del treno della stazione di Rovigo. Per non parlare di quanto avvenuto a Messina la scorsa settimana, quando una studentessa che non aveva finito gli esami, di contro a quanto promesso ai genitori, è stata ricoverata al Policlinico in gravi condizioni dopo aver tentato il suicidio.
Torna alla mente Tokyo sonata, un film ambientato in Giappone negli anni della crisi del 2007/2008, nel quale un padre di famiglia e uomo d’affari, Ryuhei Sasaki, perde il lavoro. Incapace di ammetterlo alla moglie, metterà in scena per lungo tempo una vita all’altezza delle aspettative di lei, o delle aspettative che lui credeva la moglie avesse, e per vari mesi ogni giorno, vestito in giacca e cravatta, si sveglia presto il mattino e la saluta prima di uscire, recandosi poi, invece che nella grande azienda in cui lavorava, a pulire i bagni dei grandi magazzini e alla mensa dei poveri per pranzo, prima di tornare a casa la sera ancora dalla moglie, salutandola nuovamente in abito elegante e cravatta.
La storia di Giada è una storia in parte affine, nei limiti in cui Giada, o gli studenti al centro di queste tragiche scelte, performano per un certo tempo un’esistenza all’altezza delle aspettative di cui si sentono oggetto, nascondendo, sino a che vi riescono, dentro se stessi le incongruenze, le inadempienze o le inadeguatezze di cui si sentono responsabili. Nella vita dei nostri protagonisti, in questo senso, esiste un gap tra le aspettative sociali in loro riposte e i traguardi che sentono di poter a raggiungere, un gap per loro a tal punto inammissibile e di cui questi giovani studenti si sentono a tal punto responsabili da preferire un gesto estremo di sottrazione al mondo piuttosto che accettare le conseguenze del sentirsi causa della delusione altrui. Faccio questa premessa perché mi ha molto colpito uno dei commenti che hanno fatto seguito a questa vicenda. Guido Saraceni, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Teramo, all’indomani dal tragico gesto ha scritto le seguenti righe:
“Ma l’Università non è una gara, non è una affannosa corsa ad ostacoli verso il lavoro. Cerchiamo di spiegarlo bene ai nostri ragazzi. Liberiamoli una volta per tutte dall’ossessione della prestazione perfetta, della competizione infinita, della vittoria ad ogni costo. Lasciamoli liberi di essere se stessi e di sbagliare. Questo è il più bel dono che possono ricevere. Il gesto d’amore che può letteralmente salvarne la vita”.
Il messaggio di Guido Saraceni ha avuto migliaia di condivisioni. Si tratta di un messaggio evidentemente capace di risuonare con l’emotività sociale e i suoi desiderata. Il problema è che tale messaggio è, nella sostanza, falso. Ci piacerebbe che la competizione fosse una condizione immaginaria che esiste solamente nei fantasmi e negli incubi degli studenti e ci piacerebbe che bastasse un po’ d’amore per liberarli dalla paura di sbagliare, ma non è così.
Oggi come oggi, l’università è una gara ed è una gara profondamente competitiva nella quale solo chi dimostra di saper raggiungere risultati eccellenti può avere la speranza di sottrarsi a un futuro di precarietà e disoccupazione. È il cuore stesso della riforma neoliberale dell’istruzione, quel pacchetto di riforme che a partire dagli anni Ottanta e Novanta ha inteso ripensare il ruolo dell’università in un contesto vieppiù segnato dalla disoccupazione. Il problema era la trasformazione del mercato del lavoro in un mercato duale, caratterizzato da una crescita limitata degli impieghi altamente qualificati e da un incremento superiore di impieghi precari e a basso salario – la famosa divisione in MacJobs e McJobs. In un mercato del lavoro siffatto, evidenziavano allora una serie di resoconti della OECD, del FMI e della Banca Mondiale, era necessario trovare strumenti per monitorare la performance degli studenti in modo stringente, inducendoli a dimostrare sin da subito la propria capacità di eccellere, di essere in regola con gli esami (e di non degli svogliati fuoricorso) e di ottenere i voti più alti, perché solo i migliori potranno competere nel mercato globale. In questo contesto, l’università, come scriveva Kenneth Arrow (1973), è diventata un filtro sociale capace di misurare gli studenti in base alle loro performance e di ordinarli in una serie di gerarchie, assicurandosi che solo i migliori avessero accesso ai migliori posti di lavoro mentre gli altri in qualche modo si sarebbero arrangiati.
Immaginiamo ora di essere uno studente di una città del Sud Italia, dove la disoccupazione giovanile è al 56%. Immaginiamo di studiare in una di quelle università che, come ci ricorda Gianfranco Viesti in un prezioso rapporto titolato Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud (Donzelli, 2016), ha visto gradualmente ridursi il finanziamento pubblico in seguito alla Legge 240/2010, e con essi il numero di docenti per studente. In questo contesto, l’ipotetico gap tra le aspettative sociali riposte negli studenti e i traguardi che sentono di poter a raggiungere, è inscritto strutturalmente nel sistema nel quale viviamo. “L’ossessione della prestazione perfetta” e “la competizione infinita”, quei “fantasmi psicologici” da cui Saraceni vorrebbe eroicamente liberare gli studenti, sono l’unica opportunità per uscire da un contesto di precarietà e disoccupazione. Al netto delle differenti situazioni famigliari, per definizione sempre complicate e per questo anche sempre innocenti, non esistono tutele sociali in grado di salvare le nuove generazioni. L’unico modo per salvarsi è farlo individualmente imparando a fare proprie l’eccellenza e la competizione. In questo contesto, la competizione non è un problema dell’immaginario, come lo presenta Saraceni. È una forma di darwinismo sociale presentata come unico strumento di emancipazione. Non sorprende affatto che, in un contesto di tale violenza, vi sia chi non ce la fa – stupirebbe francamente il contrario. Né stupisce che vi sia chi vorrebbe risparmiare ad altri questa delusione – esattamente come avviene in Tokyo Sonata. Il fatto è che il vero nodo della questione non sono gli studenti ma i valori in base ai quali si struttura la società contemporanea. Ogni volta che sentiamo parlare di “eccellenza”, in questo senso, bisognerebbe smetterla di pensare a opportunità emancipative e riconoscervi più propriamente politiche di “esclusione” che, invece di tutelare i più deboli, spostano in alto la barra del merito e abbassano il sipario su chi non riuscirà a passare.