Dopo due mesi di resistenza eroica, Afrin è caduta nelle mani degli invasori turchi e dei loro collaborazionisti. La bandiera turca è issata sul palazzo governativo nel centro della città, insieme a quella dell’Esercito libero siriano. I carri armati di Ankara girano tra le macerie, nelle strade vuote di una città fantasma.
La guerriglia curda ammette la sconfitta, ma promette la riconquista. Per l’esercito turco non è stata una passeggiata, ma il presidente turco Erdogan – trionfante – ha deriso con sarcasmo i combattenti curdi. Il prezzo è stato altissimo: migliaia di morti e duecentomila profughi, che stanno vagando nelle zone rurali, nella provincia di Aleppo. I vincitori hanno saccheggiato negozi e rubato auto e macchinari agricoli.
Ai curdi non è servito a nulla il ricorso al sostegno governativo di Damasco, che ha mandato qualche centinaio di combattenti – miliziani alleati e non soldati – senza attivare le necessarie pressioni diplomatiche su Ankara con l’aiuto di Mosca. La soverchiante disparità delle forze in campo ha avuto la meglio. Le mire del neo-sultano sono quelle del controllo sul nord della Siria, e si teme che le truppe puntino su Kobane e Manbij. La battaglia di Afrin è il simbolo di un tradimento internazionale nei confronti dei curdi, prima di tutto degli Stati Uniti e della Russia.