Weiji, crisi, shuailuo, declino, addirittura xihuo, estinzione: sono queste le parole che circolano da un po’ di tempo sui media e nel passaparola quando si parla di Dongguan, già “fabbrica della fabbrica del mondo”, dove nel 2014 più di 4mila manifatture hanno chiuso i battenti.
E lo stillicidio continua.
La domanda oggi è: appurato ormai il rallentamento dell’economia cinese, siamo di fronte a un normale turn-over dovuto alla transizione della Cina da economia industriale a post-industriale, oppure le grida d’allarme hanno ragione d’essere?
Dongguan, nota anche da noi per il libro Operaie di Leslie T. Chang (leggere subito!), divenne famosa a partire degli anni Ottanta – accanto alle più note Shenzhen e Guangzhou – come polo manifatturiero di quel delta del Fiume delle Perle che è stato protagonista della seconda industrializzazione cinese.
Negli anni Ottanta-Novanta, pesanti ristrutturazioni a botte di decine di migliaia di licenziamenti svuotavano l’industria pesante del Dongbei, il nordest cinese, la rust belt sorta sul modello sovietico. In contemporanea, l’esperimento della Zona di Sviluppo Speciale di Shenzhen si allargava a macchia d’olio nelle aree circostanti, grazie a bassi costi di produzione e investimenti stranieri.
Sorgevano le piccole-medie-grandi imprese, sinonimo di de-localizzazione per l’Occidente ed export per la Cina: dai bulloni ai tostapane, passando per il tessile – famoso il caso della proibitissima bandiera del Tibet indipendente prodotta da una fabbrichetta locale – e i giocattoli; fino a mobili e scarpe.
L’afflusso di decine di milioni di migranti rurali fece il resto, creando un paesaggio di capannoni e fabbrichette da far impallidire la pianura padana. Una vocazione produttiva così omogenea che qualche anno fa ci fu in progetto la creazione di una sola unità amministrativa da 50 milioni di abitanti.
Oggi, sia Dongguan sia tutto il Guangdong assistono alla fuga delle manifatture verso il Sudest Asiatico e l’Africa, mentre i media locali avvertono che una nuova catena di chiusure è imminente.
Alla radice ci sono la riduzione degli ordini dall’estero, dato il perdurare della crisi globale cominciata nel 2008; l’aumento del costo del lavoro, grazie al calo di popolazione in età lavorativa che riduce l’esercito industriale di riserva; le nuove leggi in materia ambientale, che aumentano i costi di produzione e impongono il rinnovamento dei macchinari. Le prime a delocalizzare sono le fabbriche di Taiwan e Hong Kong. Secondo un think-tank taiwanese, quelle dell’ex-Formosa che dal 2008 se ne sono andate da Dongguan sarebbero quattro-cinquemila. Quelle locali, semplicemente, chiudono. Il settimanale cinese The Economic Observer riporta che in città circa 72mila imprese hanno smesso l’attività tra il 2008 e il 2012.
Il sindaco della città, Yuan Baocheng, non sembra per nulla pessimista quando spiega ai media cinesi che questa è la legge darwiniana del mercato, dove la competizione porta alla sopravvivenza del più forte.
“Forte”, nella fattispecie, significa il più tecnologicamente avanzato, per cui starebbero chiudendo le produzioni di basso livello e sarebbero invece in aumento le imprese high-tech e i grandi marchi.
Insomma, gli ottimisti – per convinzione o per ordine di scuderia – sposano la tesi della transizione da cui Dongguan uscirà più moderna di prima. Collasso e trasformazione coesistono. Il sindaco Yuan aggiunge che le nuove imprese registrate in città sono aumentate del 21 per cento nell’ultimo anno, portando il numero totale da 600mila a 700mila circa. Il Pil della zona, nei primi tre trimestri dell’anno, ammonterebbe a 456 miliardi di yuan, per una crescita del 7,9 per cento che è superiore alla media nazionale. Il sindaco aggiunge che la sua città beneficerà in futuro del progetto One Belt One Road, la nuova cintura economica della Via della Seta che catapulterà più facilmente le produzioni locali su tutta Eurasia.
E dunque? Sul sito della rivista Fenghuang, si legge la storia di Ren Yuan, un produttore di schermi per telefoni cellulari che dopo avere aperto due fabbriche, una a Dongguang e una a Shenzhen, è ora costretto a chiudere. Caso diametralmente opposto a quello della “vetraia” Zhou Qunfei, diventata nei mesi scorsi, a 45 anni, la donna più ricca di Cina proprio grazie alla quotazione in borsa della sua Lens Technology, ingigantitasi grazie alla produzione di schermi per smartphone, computer e macchine fotografiche.
Qual è la differenza? Zhou ha nel suo pacchetto clienti Apple e Samsung, mentre Ren no. Alla concentrazione dei grandi brand internazionali corrisponde un fenomeno analogo a livello di subforniture. Nell’indotto, si combatte una guerra dove non si fanno prigionieri. E il delta del Fiume delle Perle è il principale campo di battaglia.
Le manifatture che producono componentistica elettronica se la passano particolarmente male, a causa delle leggi di protezione ambientale più restrittive che ha introdotto il governo di Pechino. Secondo una ricerca ufficiale, l’ondata di chiusure in corso colpisce soprattutto piccole imprese “a contratto”, che non hanno un brand spendibile sul mercato. È cominciata, come spesso accade, dopo la Huangjin Zhou, la “settimana dorata” successiva alla festa nazionale del primo ottobre, quando i lavoratori in ferie se ne tornano a casa per fare regali ai parenti o esibire le belle cose che si sono comprati grazie al proprio salario. Poi, tornano al lavoro e magari trovano la fabbrica chiusa con il boss che si è suicidato per la disperazione. O se l’è filata con i soldi.