Rojda Felat. È lei il simbolo della liberazione di Raqqa. La comandante curda entra nello stadio della città sventolando la bandiera gialla delle Forze Democratiche Siriane (FDS), l’alleanza curdo-araba sostenuta e armata dagli Stati Uniti. Lei è un doppio simbolo di liberazione: da una parte la vittoria militare sugli oscurantisti e spietati miliziani del sedicente califfato e dall’altra il riscatto dell’orgoglio femminile contro un’ideologia che vuole sminuire e rinnegare il ruolo delle donne, per meglio imporre il proprio potere sulla società. Due vittorie in una.
La caduta della capitale del falso califfo era stata annunciata per imminente da giorni. Dopo quattro mesi e mezzo di combattimenti e un alto prezzo pagato per una battaglia decisiva, le FDS sono entrate trionfanti nel centro di Raqqa, espugnando le ultime resistenze dei miliziani, prevalentemente stranieri, i cosiddetti foreign fighters, concentrati nello stadio della città. Nei giorni precedenti, infatti, era stato raggiunto un accordo tra i comandanti curdi e quelli di Daesh, con la mediazione dei notabili della città, per l’evacuazione garantita dei miliziani jihadisti verso Deir Azzour, a est al confine con l’Iraq, la provincia dove i rimasugli del califfato nero hanno ancora qualche controllo su una parte della città. Un centinaio di combattenti, tutti di nazionalità siriana, accompagnati dalle famiglie e da altri civili, usati anche come scudi umani per garantirsi la sicurezza, sono saliti sui pullman messi a disposizione, per il loro trasloco in un corridoio umanitario.
Questa pratica è una delle caratteristiche della guerra civile siriana. Non è la prima volta che avviene la concessione di un salvacondotto ai combattenti per concludere una battaglia con le minime perdite tra i civili. Sono avvenute a Homs, nel 2015, poi nel Qalamoun, vicino alla capitale, e poi ad Aleppo e Idlib (in questo ultimo caso, erano i soldati governativi e loro famiglie ad abbandonare il campo). Questo trattamento di favore è stato negato e giustamente ai combattenti non siriani (Sauditi, tunisini, algerini, marocchini, sudanesi, ceceni, e nativi di paesi occidentali,…) , che sono stati protagonisti delle più efferate atrocità, secondo le testimonianze di molti civili scampati al dominio di Daesh.
La caduta di Raqqa è un colpo mortale, non solo simbolico, per il sedicente califfato. E’ molto più importante anche della perdita della città di Mosul, in Iraq, la scorsa estate, perché Raqqa era stata considerata la “capitale” del falso califfato. Raqqa infatti è il centro di smistamento dei combattenti stranieri e da lì si architettavano e si guidavano le operazioni terroristiche all’estero.
La caduta di Raqqa, però, non significa la fine del pericolo daeshista. Sia in Siria che in Iraq, ci sono ancora piccoli centri sotto il controllo dei miliziani jihadisti. Ultima città è Deir Azzour, ma presenze significative di combattenti e basi si trovano nelle cittadine di confine tra Siria ed Iraq, nella provincia di Anbar irachena e in diverse zone della Siria (Homs, Hama, Aleppo e Daraa). Per non parlare delle cellule dormienti, che al momento opportuno vengono riattivate per azioni terroristiche dietro le linee del fronte. Secondo il portavoce delle FDS, Talal Salu, “la città di Raqqa è al 90% bonificata, ma rimangono mine nel terreno e jihadisti nascosti e camuffati tra i civili. E’ in corso un’operazione di pulizia molto più dura della battaglia aperta, perché dobbiamo condurla contro un nemico invisibile”.
Ci si interroga sulla fine del falso califfo, Al Baghdadi e dei suoi luogotenenti, i capi di Daesh di primo piano. Sembrano svaniti nel nulla e la loro sorte, malgrado i diversi comunicati sulla loro presunta uccisione o morte, rimane non chiarita. Si era diffusa tempo fa, che i capi dell’organizzazione terroristica si sono trasferiti in Libia o in Sinai, ma poi la notizia è stata smentita dai fatti. Un ultimo rifugio per i capi del terrorismo jihadista, con una certa sicurezza di copertura, rimangono la zona del confine tra Afghanistan e Pakistan e quelle centrali dello Yemen. Quest’ultima rimane la zona più accessibile ai daeshisti, anche per questioni logistiche, e lo ha dimostrato l’attacco con i droni statunitensi di qualche giorno fa.
La diaspora dei jihadisti stranieri dovrebbe preoccupare e non poco i servizi di sicurezza dei paesi d’origine. In Tunisia, Marocco e Libia, nell’ultimo anno, si è registrato il ritorno dalla Siria di oltre tremila elementi addestrati, che difficilmente si accontenteranno di ritornare alla vita civile. Lo stesso vale, anche se con numeri più modesti, per i foreign fighters europei. Una mina vagante che non promette bene. I servizi segreti occidentali (e turchi in particolare) che hanno chiuso un occhio sul loro reclutamento per andare a combattere in Siria, adesso dovrebbero tirare fuori i “file”, per poterli controllare meglio, prima che entrino in azione.