Quattrocentomila rifugiati nei campi profughi che si trovano in Bangladesh, sempre che riescano a superare le mine antiuomo piazzate sul lato birmano del confine; almeno 210 villaggi rasi al suolo dalle forze di sicurezza, secondo Human Rights Watch; un numero imprecisato di vittime. Sono questi finora i dati della repressione contro i rohingya, la minoranza etnica musulmana di Myanmar che però il governo del Paese non riconosce e considera stranieri nonostante vivano nello stato Rakhine birmano da almeno due secoli (anche se le prime tracce risalgono all’ottavo secolo).
Tutto è cominciato il 25 agosto con un attacco dell’Arakan Rohingya Salvation Army – un gruppo terrorista per le autorità ma che si definisce di autodifesa – in cui sono morti 12 militari. Da allora, l’escalation e ciò che le Nazioni Unite definiscono senza mezzi termini “pulizia etnica”.
Solo il 19 settembre Aung San Suu Kyi ha parlato per la prima volta dell’emergenza in pubblico, con un intervento giudicato da più parti tardivo e insufficiente, se non colluso con i militari. La premio Nobel per la pace è apparsa elusiva quando ha detto che il suo governo deve ancora capire cosa stia succedendo e che esistono sia accuse sia contro-accuse, condannando poi genericamente “tutte le violenze”. In circa due ore non ha mai nominato i rohingya – definendoli invece “musulmani dello stato Rakhine” – tranne quando si è riferita, in negativo, all’Arakan Rohingya Salvation Army.
Si è detta poi “dispiaciuta” per i musulmani che hanno lasciato il Paese aggiungendo subito che la maggior parte dei villaggi non è stata distrutta, il che lascerebbe intendere che la situazione non sia poi così grave. Ha anche detto che i rifugiati in Bangladesh possono tornare in Myanmar se superano i controlli delle autorità birmane, il che significa che non sarà mai possibile.
Ha infine sottolineato che i militari in azione nell’area sono stati istruiti a esercitare moderazione. Insomma, la “Lady”, ha negato che nello stato Rakhine ci sia in corso la pulizia etnica denunciata invece dalle Nazioni Unite e dalle associazioni umanitarie.
I simpatizzanti della premio Nobel, anche a livello internazionale, sostengono che Aung San Suu Kyi non abbia colpe, perché di fatto non controlla i militari. È vero, la costituzione birmana riserva all’esercito posti chiave in parlamento e lo sottrae di fatto al controllo della politica.
Ma questo non giustificherebbe comunque la presa di posizione della leader de facto di Myanmar che sposa completamente la versione dei militari stessi.
Già prima di prendere il potere con le elezioni del 2015, quando era considerata la paladina dei diritti umani, Aung San Suu Kyi eludeva la questione rohingya, già allora minoranza perseguitata. Concedendole beneficio d’inventario, molti osservatori ritenevano ai tempi che la “Lady” non volesse inimicarsi la maggioranza buddista in vista del fondamentale appuntamento elettorale. Poi, le cose sarebbero cambiate. Membri autorevoli del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), erano però già molto espliciti, negando l’esistenza della minoranza musulmana in quanto parte della società birmana.
U Win Tin, membro fondatore e carismatico della Nld, secondo solo ad Aung San Suu Kyi, aveva per esempio dichiarato in un intervista del 2012 con il giornalista spagnolo Carlos Sardiña Galache che il conflitto nello stato Rakhine era stato “creato da stranieri, bengalesi”, aggiungendo che i birmani “non possono considerarli cittadini, perché non lo sono per nulla, qui tutti lo sanno”. Aveva poi affermato che i rohingya “vogliono rivendicare la terra, vogliono affermarsi come razza, pretendono di essere nativi e questo non è giusto”.
Era una posizione che echeggiava la legge sulle nazionalità birmane, varata dai militari nel 1982, che esclude i rohingya dalle “otto razze nazionali”, rendendoli di fatto apolidi. Nel 2013, la Nazioni Unite li hanno definiti una delle minoranze più perseguitate al mondo.
È più probabile quindi che la posizione di Aung San Suu Kyi sia dettata da un misto di convinzione e opportunismo politico: non inimicarsi la maggioranza buddhista di Myanmar. Il tutto, sulla pelle di oltre un milione di rohingya.