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Abdoulaye Konaté: Come sconfiggere il fanatismo religioso

“L’Hotel Radisson è a due passi da casa mia, l’attacco è avvenuto nel quartiere dove abito. Quello che è successo è veramente un dramma, per me. Il fanatismo religioso si sta sviluppando ad una velocità incredibile, soprattutto in Africa ma anche in altre parti del mondo. Noi siamo molto esposti, a causa della vulnerabilità dell’economia e della debolezza delle forze di sicurezza: i nostri Paesi sono molto fragili”.

Classe 1953, Abdoulaye Konaté ha lavorato al Ministero della Cultura e diretto il Palazzo della Cultura a Bamako, e oggi nella capitale del Mali è direttore del Conservatoire des Arts et Métiers Multimedia, un ruolo che lo tiene in contatto con i giovani, nei confronti dei quali Konaté sente una forte responsabilità; parallelamente a questi incarichi ha sviluppato una carriera che lo ha portato ad essere uno dei più noti e quotati artisti africani a livello internazionale.

In Italia per inaugurare alla Primo Marella Gallery la sua seconda personale milanese, è stato ospite degli studi di Radio Popolare per la trasmissione I girasoli qualche ora dopo l’attacco jihadista nella sua città, mentre gli avvenimenti erano ancora in corso.

Prima dell’intervista era riuscito a raggiungere a Bamako la moglie e i figli e ad assicurarsi che tutti i suoi familiari stessero bene.

Ti aspettavi che potesse succedere qualcosa del genere ? C’era già stato alcuni mesi fa un attacco jahadista a Bamako, ma non di queste dimensioni…

Personalmente mi aspettavo che i jahadisti “dessero spettacolo”, in Africa o altrove, perché è qualcosa che abbiamo già visto in alcuni paesi arabi, è il loro modo di tirannizzare le popolazioni, di drammatizzare le cose. Individuano i luoghi pubblici come veicoli pubblicitari, ed è lì che cercano di colpire. E hotel, luoghi di spettacolo o ristoranti sono dei luoghi molto difficili da proteggere.

Che presenza è quella jihadista in Mali ?

Il Mali è in una posizione geografica molto pericolosa, fra il mondo arabo-islamico e l’Africa nera. Noi siamo il tampone, quindi lo spazio di predilezione per veicolare un’ideologia estremista di quel genere. Il Mali ha conosciuto molti secoli di religione islamica, ma – non bisogna avere a paura a dirlo – adesso ci sono paesi arabi che hanno molto denaro, che hanno i petrodollari, che si sono infiltrati nei nostri paesi fragili, con il loro sistema di insegnamento, il sistema delle scuole islamiche, e la radicalizzazione dei giovani: giovani disoccupati, che non hanno praticamente niente da perdere. E’ questa infiltrazione il più grosso pericolo per la società, perché loro non influenzano solo dei giovani che poi vengono da noi dall’esterno, ma influenzano dei giovani che sono all’interno dei nostri paesi, nelle nostre famiglie.

Che cosa dovrebbe fare l’Europa ?

Non si tratta solo dell’Europa. Con questi jihadisti non ci sono possibilità di discussione. Come esseri umani è difficile da dire ma bisogna sterminarli, una po’ alla volta bisogna sradicarli. Il mondo ha vinto la seconda guerra mondiale, e sono assolutamente sicuro che vinceremo contro questi estremismi fanatici. Non è solo questione di quello che l’Europa può fare in Africa: loro sono anche in Europa, sono nelle nostre famiglie in Europa. Se si guarda le classi di età che sono protagonista di questi attacchi, si vede che sono dei giovani. Se quelli che li mandano parlano di paradiso, perché non vanno in paradiso loro, tanto per cominciare ? Perché mandano i nostri giovani in paradiso ? Ci vadano loro, e ci lascino in pace. Credo che tutta l’umanità debba lottare contro questo, e sterminarli, non credo che ci sia altra soluzione. Per loro noi siamo in errore, siamo degli storditi, e non ci vogliono dare ascolto, non vogliono discutere. La sola soluzione è di sterminarli. Sono umano, ma si tratta di forze che capiscono solo questo linguaggio.

Gli Stati Uniti e l’Europa hanno le loro responsabilità… Hanno persino dato armi ai jihadisti…

La situazione sul piano economico è a livello internazionale molto complicata. Il mondo intero si è focalizzato sul denaro. La guerra è legata al denaro. Il problema è risolvere sul piano mondiale la situazione della giovane generazione che è senza lavoro. Il problema delle armi è un problema reale, ma non stiamo parlando di un esercito in senso tradizionale: è una guerra asimmetrica, in cui dei giovani anche con solo poche armi possono fare dei disastri. Il problema fondamentale è quello dell’educazione, della formazione dei giovani sul piano sociale, etico: mentre ho l’impressione che gli stati stiano diminuendo i loro budget destinati alla formazione dei giovani e alla creazione di impiego. Non si tratta di dare un sacco di soldi a tutti, ma di fare in modo che tutti abbiano un po’ di che vivere.

Cosa propone ai giovani il Conservatoire des Arts di cui sei direttore ?

E’ un centro di formazione artistica e culturale. Il mio concetto della scuola non è quello tradizionale, è quello di una sorta di laboratorio, dove la cultura possa essere in relazione non soltanto con la società ma anche con l’economia. La cultura ha una grande importanza per il vivere insieme, per creare le condizioni per lo scambio e la discussione senza violenza. Per me l’obiettivo di questa scuola è quello di sviluppare una cultura di tolleranza, che possa diffondersi nelle altre università e anche nel mondo reale.

Anche in questa mostra milanese ci sono degli esempi della tua attenzione al tema della violenza motivata in termini religiosi, e di come l’arte possa cogliere quello che si muove nella società…

Noi artisti a volte riusciamo a sentire un po’ in anticipo sul grosso della società delle cose che stanno succedendo, avvertiamo il cambiamento sociale da diversi angolazioni, anche per esempio nell’abbigliamento, nei comportamenti, nel linguaggio, e abbiamo avvertito un certo sconvolgimento sociale che si sta verificando in Africa, e questo ci ha messo in allerta. Succede di trovarsi di fronte dei problemi che, per quanto ancora lontani, stanno però arrivando, e di avere l’impressione che i poteri a livello politico ma anche le autorità religiose non si facciano carico del pericolo che minaccia la popolazione. Se parliamo dell’estremismo, sono una quindicina, una ventina d’anni, che sentivo che c’erano dei cambiamenti nella società, e che in questo c’era la responsabilità di paesi molto ricchi che si sono immischiati nei nostri problemi, che sono venuti ad imporre la loro concezione della vita sociale al nostro popolo. E l’impressione è che i poteri abbiano bisogno di denaro e chiudano quindi gli occhi su questo. Come se volessero vivere l’oggi senza pensare al domani, e questo è un pericolo grave.

L’arte che tipo di efficacia può avere ?

Pur non essendo un’arma nel senso di qualcosa che spara dei proiettili, sono convinto che sia di un’efficacia enorme. L’arte ha la capacità di toccare, di far cambiare la mentalità, di far evolvere le società sul piano culturale e mentale.

Nei tuoi lavori utilizzi molto il tessuto: come sei arrivato a questa scelta ?

Ho fatto la mia formazione nelle accademie artistiche in Mali e a Cuba, ho studiato la pittura a olio, l’acrilico, l’incisione, eccetera, ma per caso negli anni novanta ho cominciato ad utilizzare i tessuti. Tutti i popoli del mondo utilizzano i tessuti e con questi materiali con cui noi viviamo tutti i giorni, le società hanno sviluppato una grande qualità, una sensibilità, una delicatezza, un amore per questi tessuti: mi sono detto che poteva essere un materiale possibile che si poteva utilizzare per esprimersi.

Nel soggiorno a Cuba hai avuto occasione di conoscere un grande artista come Wilfredo Lam: che cosa ti ha dato l’incontro con lui ?

In effetti negli anni del mio soggiorno ho potuto conoscere molti artisti cubani, ho avuto la fortuna di fare degli stage di formazione al Museo nazionale, e quindi di vedere molte opere di grandi artisti di prima e dopo la rivoluzione, e ho avuto anche la possibilità di vedere diverse grandi esposizioni, di artisti canadesi, americani, brasiliani che venivano a Cuba. Ad un certo punto Wilfredo Lam era a Cuba per farsi curare, in un ospedale che era a due passi da Cubanacan, la nostra scuola di belle arti. Assieme ad una amica cubana che adesso insegna all’università di Boston, nel week end lo andavamo a trovare e a volte portavamo dei nostri lavori per avere la sua opinione. Una volta mi ha domandato da che paese venivo: gli ho detto che venivo dal Mali, in Africa. E lui mi ha detto: ma che cosa vieni a fare a Cuba, quando tutto quello che vieni a cercare qui voi lo avete lì, in Africa. E’ una cosa che mi è rimasta impressa e che mi ha spinto a tornare alla mia cultura, a verificare quali possibilità c’erano che non avevo visto, e che altri, dall’esterno, invece hanno visto.

Sul piano dei colori nelle tue opere realizzate sui tessuti ci sono delle scelte molto diverse: si va dai monocromi fino a delle vere sinfonie cromatiche.

Ho due grandi linee di lavoro: una tocca le grandi questioni dell’umanità, tanto in termini di società quanto di come l’anima soffre in questo mondo attuale, e la seconda – che per me è complementare alla prima – è lo studio della bellezza dei colori. L’atteggiamento che ho nei confronti dei colori è quello di una analisi dettagliata, di come le sfumature esistono nella vita, tutta la varietà dei colori che esiste nella natura, quando si guardano gli insetti, gli animali, le piante, il cielo, e anche la notte. Perché c’è varietà anche nel monocromo: per esempio nel nero ci sono veramente delle tonalità di profondità che sono difficili da cogliere, e di notte si ha l’impressione che nel cielo non ci sia colore, ma se ci si prende il tempo per osservarlo ci si rende conto che c’è una enorme varietà di colori. Questa osservazione rappresenta per me dei momenti di vita, di tranquillità interiore, che cerco di mostrare.

In questo gioco di colori, realizzato attraverso la combinazione di tante piccole strisce di tessuto, possiamo anche vedere la metafora di una armonia, di una unità, di una convivenza che nasce dal rispetto delle diverse identità e delle differenze ?

Certamente, per questo dicevo che questa ricerca sui colori è per me complementare rispetto all’altra. Più si sviluppa la sensibilità umana e meno si diventa violenti. Cerco di attirare l’attenzione dell’animo umano, che sia europeo o africano, su un criterio di bellezza naturale, umana: quando si lavora sui colori, si prova un sollievo interiore.

Che cosa hai in progetto, stai lavorando a qualcosa di nuovo ?

Ho in vista alcune esposizioni importanti. Per il resto il lavoro artistico è sempre un progetto interiore, che si può spiegare solo quando si comincia effettivamente a farlo. Ma ci tengo ad aggiungere qualcosa d’altro. Noi abbiamo cominciato a formarci, da studenti, avendo fra i grandi riferimenti l’arte italiana: penso che la pittura, l’arte italiana abbiano dato moltissimo al mondo. E devo confessare che a parlare di forme e colori in Italia si rischia di sentirsi un po’ pretenziosi, perché l’Italia sul piano artistico è stata una culla dell’umanità.

Quale è il periodo dell’arte italiana che hai amato di più ? Magari il Rinascimento ?

Sì, nel mio lavoro penso spesso a quel periodo, perché allora gli artisti italiani non hanno lavorato solo sull’arte, ma anche sulla tecnologia, la scienza, il problema religioso, in definitiva hanno lavorato sull’umanità. Su quali possibilità un artista può avere come individuo, sul ruolo che può avere nella società. I grandi artisti italiani di quell’epoca hanno tracciato la via. Ma, detto questo, continuo sempre ad essere interessato a tutta la produzione contemporanea italiana.

  • Autore articolo
    Tiziana Ricci
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    Ho detto R1PUD1A di Claudio Jampaglia e Giuseppe Mazza per EMERGENCY “Ho detto R1PUD1A” è un podcast sul riarmo e la propaganda di guerra in Europa di Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia, realizzato negli studi di Radio Popolare per EMERGENCY. Nei 5 episodi vi racconteremo le ragioni della campagna R1PUD1A di EMERGENCY www.ripudia.it attraverso un’analisi dei meccanismi per cui in questi anni siamo arrivati al “non c’è alternativa” al riarmo, dei protagonisti, delle campagne e dei linguaggi, con molti ricorsi storici, qualche sguardo alle alternative e con la partecipazione di alcuni dei protagonisti dell’associazione che da 30 anni cerca di curare e prevenire le ferite provocate dai conflitti armati. Primo episodio: Le parole sono importanti. In questa prima puntata di “Ho detto R1PUD1A” Giuseppe Mazza e Claudio Jampaglia spiegano cosa significa la parola “ripudia” nella Costituzione italiana e perché è stata scelta per rappresentare il “mai più” alla guerra del popolo italiano dopo la Liberazione. Non siamo i soli ad avere fissato questo principio nelle nostre leggi. La guerra però sta tornando una prospettiva concreta, almeno secondo la maggior parte dei governi, che si riarmano, Italia compresa. Con Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY, vi racconteremo poi l’esempio del Sudan, il Paese dove la guerra ha già causato in questi due anni oltre tre milioni di profughi. Partecipa alla campagna R1PUD1A su www.ripudia.it

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    C'è Di Buono: Max Casacci racconta Eartphonia III: Through the grapevine

    Anche in questa puntata parliamo di qualcosa che ha a che fare con la cultura enogastronomica, ma anche, molto, con la musica. Per la prima volta il caro Max Casacci (già colonna dei Subsonica) è stato ospite di un nostro programma non prettamente musicale, per raccontare il terzo episodio del suo progetto "Eartphonia", che lo ha portato in Franciacorta per "Through the grapevine", realizzato con i suoni del vino; suoni e rumori catturati nelle cantine dell'azienda vitivinicola Bersi Serlini Franciacorta. A cura di Niccolò Vecchia

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