“Non saremo mai una superpotenza economica, nemmeno militare, ma siamo una superpotenza culturale”.
E’ la frase ripetuta come un mantra dal capo del governo Matteo Renzi nei suoi ultimi viaggi internazionali (Cile, Peru, Colombia, Arabia Saudita). L’Italia di Renzi ha finito così per essere rappresentata all’estero da un’attività di promozione di un nuovo brand, lo potremmo chiamare il “thought in Italy” da sostituire all’ormai datato “made in Italy”.
Ecco di cosa si tratta. La crisi durissima di questi anni ha colpito la manifattura italiana e il “made in Italy” che ne è stato il fulcro. Vista la crisi occorreva cercare un nuovo marchio. E Renzi lo ha trovato: ha sostituito all’orgoglio patrio per la manifattura, per ciò che viene fatto, prodotto, costruito in Italia (il “made in Italy”, appunto), l’orgoglio per ciò che viene pensato ideato creato in Italia, il “thought in Italy”, se così lo vogliamo chiamare. Renzi pensa alla cultura, al capitale umano, al patrimonio artistico: «se manterremo il ruolo di superpotenza culturale – ha scritto il capo del governo su Facebook un mese fa – tra 20 anni l’Italia sarà una guida per il mondo».
Nel frattempo, però, la politica estera italiana resta chiusa tra il sogno di diventare guida, superpotenza culturale, e la necessità concreta di fare affari, oggi. A Memos ne abbiamo parlato con Alberto Negri, inviato speciale del Sole-24Ore e Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss di Roma. «Trovo – racconta Negri – due cose sconcertanti nella politica estera italiana degli ultimi due-tre anni: una sui principi, l’altra sulle persone. La prima: si fanno affari per darsi una politica estera, mentre si dovrebbe avere una politica estera per poi fare anche affari. La prospettiva in Italia è rovesciata: prima vengono gli affari e poi la politica estera. Ma la politica estera – prosegue Negri – in questo modo viene indebolita: per non mettere in pericolo i nostri affari evitiamo di assumere posizioni politiche che invece dovremmo prendere. Il secondo aspetto riguarda le persone. In poco più di due anni sono cambiati tre ministri degli esteri: prima Bonino, poi Mogherini e infine Gentiloni. Quando ci presentiamo in sede europea i nostri interlocutori sono di fronte ad una rotazione vorticosa dei responsabili della politica estera. E poi mancano le forze. Nel giugno scorso – conclude Alberto Negri – si è dimesso un viceministro degli esteri come Lapo Pistelli e non è mai stato sostituito, nonostante gli impegni siano tanti e gravosi».
Anche per Germano Dottori la politica degli affari è una priorità della diplomazia italiana e fa parte di una tradizione. «L’Italia – dice – cerca di fare affari con tutti i paesi del mondo e, in particolare, il presidente Renzi sta cercando in questa fase di attrarre investimenti nel nostro paese. Ma c’è anche un altro aspetto, politico, molto importante. Si tratta delle scelte di allineamento che l’Italia sta compiendo in Medioriente. Non è un mistero per nessuno che il governo Renzi, e il presidente del consiglio in particolare, siano particolarmente legati all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti; c’è poi un rapporto di ferro che è stato stretto con l’Egitto e ce n’è uno molto caldo anche con Israele. Tale allineamento – sostiene Dottori – condiziona anche le scelte che si stanno cercando di assumere nei confronti della crisi in Libia e in Siria. C’è inoltre uno strappo rispetto alla tradizione recente che rischia di costarci caro; mi riferisco al mancato sfruttamento delle opportunità che si stanno aprendo in Iran. Mi risulta – racconta a Memos il professore della Luiss – che gli iraniani siano particolarmente sorpresi che il nostro presidente del consiglio stia lavorando molto con i sauditi, gli israeliani e gli egiziani. Sono sorpresi perché l’Italia, dopo anni di apertura e di mediazione con l’Iran, oggi rischia di restare indietro nello sfruttamento di quelle opportunità. L’Italia si sta facendo sorpassare da paesi meno attivi verso l’Iran proprio nel momento in cui ci sono i presupposti per fare grandi affari con Teheran».
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