Ancor prima dell’inaugurazione, già si teme il buco nell’acqua. Il summit sull’immigrazione di La Valletta, annunciato in aprile dopo l’adozione dell’Agenda per l’immigrazione, la road map per rimettere in discussione la Fortezza Europa che quest’anno è costata la vita ad almeno 3.400 migranti nel solo Mediterraneo.
Il summit è il primo segno tangibile del Processo di Khartoum, la strategia tutta italiana nata nel novembre 2014, con Lapo Pistelli (oggi all’Eni), viceministro degli Esteri. La strategia dei Paesi che fondatori del processo,(Comitato principale: Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Malta; per l’Africa Eritrea, Etiopia, Sud Sudan e Sudan), era quello di aumentare la cooperazione, in ottica sviluppo e nuove opportunità per l’Africa. Già un anno fa c’era il sentore che il coinvolgimento dei Paesi di origine, tra cui dittature come l’Eritrea, avrebbe causato non pochi problemi. La pubblicazione della bozza di accordo conclusivo, rivelata dall’ong inglese Statewatch il 4 novembre, a una settimana dall’inizio dei lavori, ne è una conferma: per i Paesi africani non c’è stato dialogo, ma solo un monologo europeo. Nessun accordo. Gli analisti più maligni ipotizzano che sia solo una strategia per alzare la posta in gioco.
“Quel che è certo è che questo summit è una grande opportunità per tutti. L’Europa manterrà l’impulso con la convocazione straordinaria di un Consiglio dei capi di Stato europei. Ma non è un segreto che le posizioni tra i Paesi africani e quelli europei siano distanti”. Così parla Carmelo Abela, ai microfoni di Radio Popolare. Titolare del Ministero dell’Interno dell’isola mediterranea, 400 mila anime in un fazzoletto grosso come l’isola d’Elba, è sempre stato uno dei massimi sostenitori del summit. “Quali saranno i risultati concreti dell’incontro è ancora una grande domanda”, afferma.
“Alla fine credo sarà solo una questione di soldi: più si offrirà ai Paesi africani per riprendersi indietro i migranti, più ci si avvicinerà ad un accordo”, ragiona Arnold Cassola, fondatore del Partito dei Verdi di Malta, all’opposizione, ed ex parlamentare italiano durante il Governo Prodi. Non è un caso che l’unico passaggio certo al 100 per cento del Summit è la firma dell’Emergency Trust Fund per l’Africa, un fondo fiduciario destinato al mantenimento della pace e della stabilità in una ventina di Paesi africani. Il fondo ammonta ad 1,8 miliardi di euro, corrisposti dai Paesi membri Ue. L’Italia ci metterà 10 milioni, ha fatto sapere la Farnesina.
“Cause del fenomeno; immigrazione legale; protezione; lotta al traffico di esseri umani; ritorno e riammissione”: ecco le cinque parole chiave che il summit dovrà discutere. Parole vuote, che suonano come slogan, per il momento. Non è un caso, infatti, che prima dell’apertura del summit, prevista alle 15.30, Jesuit Refugee Service, Aditus e Integra Foundation, tre delle realtà più importanti nella gestione dei migranti a Malta, organizzano un incontro all’università locale dal titolo #HumanRightsFirst. L’obiettivo è costruire una rete di alleanze che sia alternativa a quella nazionale e che appunto si basi sulle istituzioni sul territorio.
Intanto il Coordinamento per l’Eritrea democratica (la più grande organizzazione di eritrei della diaspora ostili al regime di Isaias Afeworki) insieme all’agenzia Habeshia di padre Mussie Zerai (ong che aiuta i profughi eritrei e le loro fsmiglie che cercano i dispersi), ha portato il 9 ottobre un documento a Bruxelles che indica altre parole d’ordine rispetto a quelle che risuonano a La Valletta. Politica migratoria europea. Possibili soluzioni sostiene la necessità di costruire un unico sistema di asilo in Europa, aprire canali umanitari, la riduzione dei tempi di detenzione nei centri. Tutte rivendicazioni che non trovano spazio nel palco del summit di La Valletta.
Ascolta l’intervista al Ministro dell’Interno maltese Carmelo Abela: