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Negli anni ’80 in Africa si concludevano le ultime lotte anticoloniali, ma restava ancora aperta la ferita dell’apartheid in Sudafrica. La Guerra Fredda si era combattuta sui fronti dell’Etiopia, dell’Angola, del Mozambico, mentre nel Nord del continente si consolidavano regimi, come quello libico e quello egiziano, che già erano stati pedine importanti del grande gioco delle potenze.
Gli anni ’90 si aprono con l’indipendenza della Namibia e con la fine della segregazione in Sudafrica: un prigioniero di lunga data, Nelson Mandela, diventa il primo presidente di colore della grande nazione dell’Africa australe.
Ma il cammino verso il consolidamento degli Stati nati dalla fine del colonialismo non è facile. Alcuni popoli vengono divisi tra più Paesi, altre etnie storicamente antagoniste si ritrovano “condannate” a convivere per via dei confini tracciati a tavolino. Una situazione che, insieme alla mancanza di strutture statali, a democrazie che sono tali solo da un punto di vista formale, a legami “inquinati” con le potenze europee, determina conflitti diffusi: guerre tra Stati e vere e proprie guerre civili. Il conflitto congolese, la politica del genocidio in Ruanda e Burundi, il collasso della Somalia, la guerra dell’Eritrea che cerca l’indipendenza dall’Etiopia, le persistenti guerre civili in Mozambico e Angola.
Tra mille difficoltà interne, l’Africa perde il treno della globalizzazione degli anni ’90 restando un’area geografica marginale ed emarginata. Una dopo l’altro falliranno i diversi piani di sviluppo promossi dalle potenze mondiali che, prescindendo dalla storia del continente, attraverso gli aiuti tentano di imporre una propria visione della società e della democrazia.
Negli anni 2000 le cose cambiano, con il Nordafrica, fino ad allora l’unica area stabile del continente, risucchiato nel vortice dei conflitti mediorientali, e l’Africa equatoriale che, per la prima volta, trova un partner economico e politico interessato a scommettere su questa macroregione, non certo per altruismo. È la Cina che, con i suoi investimenti miliardari in infrastrutture, agricoltura ed energia, sta cambiando il volto di molti Paesi africani: per la prima volta non vengono valutati solo in funzione delle riserve di materie prime da predare, ma anche come potenziali mercati dove produrre e vendere. Negli ultimi 10 anni, infatti, l’Africa centromeridionale è stata l’area del pianeta che ha registrato la crescita economica più veloce. Così come rapida è stata la crescita demografica, sempre superiore alla capacità di produrre lavoro, opportunità e cibo.
L’Africa mediterranea attraversa invece la peggiore crisi che abbia mai conosciuto, con Stati collassati come la Libia, in bilico come Tunisia e Algeria, in fermento come Egitto o Marocco. La mancanza di una politica intelligente da parte dell’Europa, incapace di tendere una mano per spostare le proprie frontiere economiche sulla sponda sud del Mediterraneo, ha determinato malcontento sociale e povertà, emigrazione di massa e radicalizzazione politica e religiosa.
L’Africa del XXI secolo rimane un continente giovane, vitale e ricco di risorse. Manca però drammaticamente una classe politica e culturale in grado di guidarla al di là degli interessi di singoli Stati o di piccoli gruppi di appartenenza, capace di elaborare una visione se non di insieme, almeno regionale. Da soli, i Paesi africani − piccoli e grandi − non possono trovare un posto, un ruolo significativo nel mondo attuale. L’Organizzazione degli Stati Africani ha rappresentato un buon inizio per la costruzione di parteneriati economici e politici, ma poi è caduta nell’oblio.
Per l’Africa del futuro servono dunque leader solidi, partecipazione, inclusione, superamento delle peculiarità storiche e culturali.
Ben sapendo che l’Africa non ha più nulla da perdere, ma tutto da guadagnare.