Una sera a Birmingham, a qualche ora dalle elezioni. Jeremy Corbyn è appena salito sul palco, e saluta i suoi elettori, li sprona a impegnarsi fino alla fine. A Birmingham ci sono circa diecimila persone, e altre migliaia sono in collegamento video da Londra, dalla Scozia, da altre parti della Gran Bretagna.
Davanti al palco da dove parla Corbyn incontro Andrew. Trentatré anni, professore di fisica. Gli chiedo qual è la forza, quest’anno, del partito laburista, e lui mi dice che è finalmente quella di proporre un manifesto radicalmente diverso da quello dei tories. I laburisti, mi dice, stanno finalmente allontanandosi dalle politiche blairiane, centriste, vicine al mondo degli affari, per tornare alle loro origini socialiste. Vogliono aumentare la proprietà pubblica in economia, redistribuire la ricchezza a vantaggio dei membri più poveri della società.
Chiedo a Andrew se ha fiducia nella vittoria di Corbyn, e lui mi dice che non lo sa, davvero, ma che ha molta più fiducia oggi di quanta non ne avesse all’inizio di questa campagna. Jeremy Corbyn, dice, ha lavorato in modo meraviglioso per far avanzare il partito. Però, aggiunge, sa di vivere in un Paese dove la maggioranza ha votato per Brexit, il che è sconsolante e non riempie di molta speranza. Ma comunque, dice, andiamo avanti.
Questo è forse l’atteggiamento più diffuso, tra i militanti laburisti. Non sarà facile battere Theresa May e i conservatori, che vengono dati avanti in tutti i sondaggi. Un risultato, comunque Jeremy Corbyn e i suoi laburisti l’hanno forse già ottenuto. Riportare il partito alla sua ispirazione originaria, all’impostazione socialista, alla difesa dei meno privilegiati.
Shirley è un’operaia in pensione. Mi dice che la vera forza di Corbyn è stato dar voce ai molti, non ai pochi. I laburisti hanno cercato di riunire la nazione. Aggiunge che in Gran Bretagna la gente è stanca, esaurita, stufa. E’ stufa di essere povera. Anche Shirley dice di non sapere come andrà a finire. Ma dice anche di essere preoccupata. Perché se Corbyn perde, le politiche dei conservatori sono destinate a creare ancora più povertà, più austerità e disperazione, con il rischio di rivolte per le strade, soprattutto tra i più giovani.
A Birmingham, al comizio di Corbyn, si è ascoltato il discorso del leader, ma si è anche cantato e ballato. L’impressione è che questo politico, così poco amato dalla nomenclatura del suo partito, sia invece amatissimo dalla base del partito, che è poi la ragione della sua sopravvivenza politica. Ma l’impressione è anche che Corbyn rappresenti, in modo non diverso da Bernie Sanders negli Stati Uniti, il tentativo di rispondere alle sfide della globalizzazione con ricette che non hanno paura di tornare ai fondamenti del pensiero socialista, che parlano di redistribuzione e giustizia sociale. Come Sanders, Corbyn è avversato dalla struttura del suo partito. Come Sanders, Corbyn non ha paura di dichiararsi socialista. Come Sanders, Corbyn pensa a un intervento pubblico a sostegno dell’economia, con investimenti nella sanità, nella scuola, la riduzione del budget per la difesa, la rinazionalizzazione delle ferrovie.
La sfida, per lui, e per i laburisti inglesi, è in fondo quindi non solo vincere queste elezioni. Ma come gestire questo tipo di politica, che secondo alcuni guarderebbe troppo al passato. E cosa fare della base, soprattutto i giovani, che questa campagna elettorale ha comunque riportato alla militanza politica e sociale.
Per il momento, resta comunque la presa che Jeremy Corbyn, questo militante non più giovane, testardamente fedele alle sue idee, ha sulla base, sui militanti laburisti. Lisbeth è una di questi. Non aveva votato per Blair, mi spiega, ed è felice che ora, nel suo partito, sia tornato qualcuno che, senza paura, dice di essere di sinistra. Per spiegarmi l’entusiasmo per Corbyn, mi racconta anche un dettaglio della sua vita. Dice di essere nata in Cile, e che aveva cinque anni quando ci fu il colpo di stato. Per lei Jeremy, politicamente, è l’Allende inglese.