Sabato 10 giugno alle ore 11 nella redazione di Radio Popolare, ICEI organizza per il ciclo “40 anni di politica estera” l’incontro “L’America Latina dai generali a Lula”. Intervengono Alfredo Somoza, Presidente Icei e Lucia Capuzzi, giornalista de L’Avvenire. Conduce Emanuele Valenti
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Alla fine degli anni ’70 l’America Latina vive la fase più buia della sua storia. Mentre il Sudamerica è quasi interamente sotto spietate dittature militari, il Centroamerica si sta avviando verso le guerre civili che nel decennio successivo macchieranno di sangue il Salvador, il Guatemala, l’Honduras. La Guerra Fredda si combatte anche in America Latina, tra gli Stati Uniti (insieme ai loro regimi vassalli) e le diverse sinistre, quelle autonome e quelle collegate a Mosca o a L’Avana. Sono gli anni dei desaparecidos, una nuova “tecnica” dei regimi per annientare gli avversari politici, del Plan Condor, che coordina il terrore su scala continentale, dell’esilio.
La democrazia tornerà timidamente e con tempi diversi, ma con un elemento comune: praticamente tutti i Paesi che usciranno dalle dittature avranno presidenti eletti che si rifaranno, almeno a parole, alle teorie neoliberiste propagandate da Ronald Reagan. A parole, perché in realtà i Fujimori, i Menem, i Bucaram, i Lacalle si ispireranno sì al credo del “più mercato e meno Stato”, ma a modo loro, cioè proponendo livelli di corruzione e di autoritarismo inediti almeno in democrazia. Intanto le sinistre, tramortite dopo la colossale sconfitta degli anni ’70, non riescono a dare segnali di vita.
Il grande cambiamento politico arriva negli anni 2000, quando la fine della Guerra Fredda consente alla democrazia, finalmente liberatasi dai vincoli di obbedienza ai dettami anticomunisti di Washington, di diventare lo strumento del cambiamento. La bistrattata e spesso disprezzata “democrazia borghese” permette una vera e propria rivoluzione pacifica, aprendo le porte a una nuova classe dirigente che trent’anni prima sarebbe stata soltanto carne da macello per i militari.
La principale fortuna dei presidenti degli anni 2000 è quella di governare all’inizio di un ciclo favorevole per le materie prime alimentari e minerarie, sostenuto dalla domanda insaziabile della Cina, diventata in pochi anni il principale partner commerciale dei Paesi sudamericani. In questa fase praticamente tutto il subcontinente è governato da forze politiche progressiste o che si considerano tali. I contesti nazionali di partenza e le situazioni politiche pregresse sono però molto diverse.
In Venezuela e in Argentina (in parte anche in Ecuador) era collassato lo Stato. Totalmente diversa la situazione del Brasile dove, dopo decenni di governi di centrodestra, nel 2003 per la prima volta arriva al potere un presidente appartenente a un partito storico della sinistra, Luiz Inácio da Silva detto Lula. Un percorso simile è quello dell’Uruguay, dove nel 2005 diventa presidente Tabaré Vázquez, esponente del Frente Amplio delle sinistre. Ancora diversa la situazione in Bolivia, dove nel 2006 l’ascesa dell’ex sindacalista dei cocaleros Evo Morales è il risultato di un nuovo protagonismo dei movimenti sociali e dei movimenti contadini e indigeni.
Fa eccezione il Cile, il Paese in assoluto più stabile della regione. Dalla transizione del 1990 fino a oggi, con la sola eccezione dei quattro anni del presidente di centrodestra Sebastián Piñera, è stato governato dalla Concertación tra democristiani e socialisti. Ultimo ma non meno importante, l’ondata progressista riesce ad arrivare anche nel Paese sudamericano più segnato dalla dittatura, il Paraguay, dove nel 2008 viene eletto presidente a sorpresa il “Vescovo dei poveri” Fernando Lugo, esponente della Teologia della Liberazione.
Anche in Centroamerica si assiste a un fenomeno simile: in Nicaragua i sandinisti tornano al potere, anche se non sono proprio gli stessi degli anni ’80, in Salvador vincono le elezioni gli ex guerriglieri del Fronte Farabundo Martí, mentre a Cuba la transizione tra Fidel e Raúl Castro avviene in modo indolore.
I punti salienti di questa stagione sono la grande sete di protagonismo dei ceti sociali relegati dalla Storia, la riconversione di alcuni movimenti armati degli anni ’60-’70, il rifiuto generalizzato delle ricette dello pseudo-neoliberismo predatorio, la voglia di sovranità nazionale. A interpretare questa fase politica sono movimenti politici diversi, con radici non sempre cristallinamente riconducibili alla sinistra, ma che insieme sanno interpretare le aspirazioni di un continente e ne danno prova rifiutando l’accordo ALCA, proposto dagli Stati Uniti per creare un unico mercato economico americano.
Oggi questo capitolo della storia contemporanea latinoamericana si sta chiudendo. Dopo la vittoria di Macri in Argentina, l’impeachment contro Dilma Rousseff in Brasile e il caos nel quale è sprofondato il Venezuela post-chavista, le destre stanno lentamente riguadagnando terreno, anche se i capisaldi lasciati dai governi precedenti in materia di equità sociale sono molto duri da scalfire. Come sono duri da scalfire i problemi antichi che si sono puntualmente ripresentati in tempi recenti: la corruzione, i tentativi di forzare le regole della democrazia per perpetuarsi al potere, il clientelismo e il populismo. E molto preoccupanti sono la diffusione e la ramificazione dei cartelli criminali della droga.
Ma simbolicamente, volendo scegliere due fotografie di questi ultimi anni, la scelta non può che cadere sull’abbraccio tra Raúl Castro e Barack Obama a siglare la fine della Guerra Fredda in America, e sulla firma degli accordi di pace in Colombia, il conflitto più antico dell’emisfero occidentale che finalmente trova una via di uscita pacifica.