Era l’estate del 1967. La Summer of Love, nata a San Francisco. E’ il culmine della controcultura hippie, fatta di ripudio dei valori tradizionali, di psichedelia, di Lsd, di amore libero. In Europa l’onda arriva e approda in Inghilterra, a Londra.
I Beatles hanno già vissuto il culmine del loro successo, in proporzioni mai viste, il primo fenomeno popolare globale. Sono già stati insigniti del titolo di Baronetti dalla regina. Hanno già contribuito a dar voce al movimento giovanile. Quello dei primi anni Sessanta, con le illusioni, l’ingenuità. Adesso il mondo sta cambiando di nuovo. Le illusioni cadono in Vietnam. Le droghe più che aprire porte, chiudono vite.
I Beatles da due anni hanno detto addio ai concerti. Basta urla, fan impazziti, tour estenuanti. Solo musica. Nel 1966 esce il capolavoro “Revolver”. E poi il primo giugno ’67 “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band”. Quel giorno addetti a lavori e appassionati di musica fecero un salto sulla sedia. Cos’è questa roba? Come ci sono riusciti? Già il titolo, lunghissimo. La banda del club cuori solitari del sergente Pepe. Sono i Beatles, sì sono loro non c’è dubbio.
Eccoli in quella meravigliosa copertina kitch e psicheldelica, circondati da fiori, e personaggi, 62: celebri, sconosciuti, popolari, inquietanti. Sono vestiti in modo strano, i Fab Four, con una specie di divisa da circo edoardiano. E accanto a loro ci sono sempre loro, quattro statue di cera. Era l’idea, nata da Paul McCartney: non sono più i Beatles, sono la band dei cuori solitari.
E presentano un disco dove le canzoni sono tutte attaccate. Che comincia con una sigla che presenta la band. E finisce con la stessa sigla. Anzi no. Non finisce davvero. C’è un’altra cosa che definire canzone è poco: “A day in the life”, un giorno nella vita, misterioso e affascinante con quella eterna coda orchestrale. In mezzo canzoni capolavoro come “Lucy in the Sky with Diamonds”, “She’s leaving home”, “Getting Better”.
Canzoni impossibili da suonare dal vivo. Realizzate con una perizia tecnica mai usata prima, sotto la guida del grande produttore George Martin negli studi di Abbey Road. Per dirne una: i registratori a otto piste non esistevano. Nessun problema: ne sincronizzarono perfettamente due da quattro piste. Paul, John, George e Ringo ci misero dentro tutto: melodia, rock, folk, psichedelia, esoterismo. Ma tutto miracolosamente equilibrato, perfetto.
Musica nuova, contemporanea, per quel 1967 dei figli dei fiori ormai in disarmo. Di lì a poco John Lennon avrebbe riconsegnato per protesta contro la guerra in Vietnam il titolo di baronetto. La colonna sonora dei tempi andava ripensata. Lo fecero loro. Con un fantasmagorico canto del cigno dei favolosi Sixties in cui si vedevano già i segni della decadenza. Sparigliarono ancora una volta. E tutti si dovettero misurare di lì in poi con il Sergente Pepe. I musicisti e non solo: anche tutti quelli che pensavano al futuro come a una pagina da scrivere e avevano bisogno di sentirselo cantare.