Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul sito di China Files
Combattimenti tra forze del governo e militanti islamici nella città filippina di Marawi continuano ormai da una settimana. Il bilancio attuale parla di almeno 19 civili, 20 membri delle forze di sicurezza e 65 jihadisti morti, secondo fonti militari. Le autorità filippine hanno intimato martedì ai militanti del gruppo Maute, che occupano ancora parti della città, di arrendersi o morire, mentre elicotteri d’assalto hanno battuto incessantemente le loro posizione, dove si pensa siano rimasti intrappolati fino a 2.000 civili.
All’origine degli scontri ci cono due gruppi, Abu Sayaf e il Maute, che ultimamente si confondono sempre più perché entrambi hanno espresso adesione a Daesh, l’Isis. Il conflitto tra musulmani e governo centrale nelle Filippine ha percorso tutto il 20esimo secolo nell’isola meridionale di Mindanao che ha 22 milioni di abitanti ed è più o meno grande come la Corea del Sud. Qui, la presenza dell’Islam c’è fin dal 14° secolo, ma durante il secolo scorso i cristiani sono diventati maggioritari perché appoggiati prima dai colonialisti statunitensi e poi anche dal governo di Manila. Un sostegno che si è tradotto soprattutto nell’esproprio di terre ai musulmani Moro e così sul conflitto religioso si innesta anche quello di classe. Si calcola che, dagli anni Settanta, la ribellione abbia causato oltre 120mila vittime.
I principali gruppi ribelli musulmani hanno ormai firmato accordi con il governo che dovrebbero portarli alla rinuncia delle proprie ambizioni separatiste in cambio di una maggiore autonomia. Il Maute, Abu Sayyaf e altri gruppi duri e puri non sarebbero però interessati a negoziare e si sono avvicinati all’Isis per sostegno morale e materiale.
Oggi, la novità è quindi l’internazionalizzazione del conflitto.
Gli scontri sono cominciati infatti quando il 23 maggio le forze di sicurezza hanno cercato di arrestare nella città a maggioranza musulmana di circa 200mila abitanti, Isnilon Hapilon, leader di Abu Sayaf e secondo fonti ufficiali il contatto dell’Isis nelle Filippine, che ha anche una taglia statunitense che pende sulla sua testa. I militari sarebbero stati sopraffatti da militanti jihadisti che si erano già infiltrati nella città e da quel momento sono cominciati i combattimenti, con intervento dei commandos filippini e anche bombardamenti arei. Gran parte della popolazione è sfollata.
Qui sotto il video di propaganda diffuso martedì in cui un prete preso in ostaggio dal gruppo Maute, padre Teresito Soganub, ribadisce al presidente filippino Rodrigo Duterte la richiesta di ritirare le forze governative da Marawi
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Esperti della sicurezza ritengono che si sia trattato di una trappola scattata proprio in vista del Ramadan: i jihadisti filippini vorrebbero assumere così legittimità agli occhi di Daesh.
Le autorità di Manila dichiarano che si tratta di una jihad internazionale anche perché tra i militanti uccisi o catturati ci sarebbero diversi malesi e indonesiani. A parziale conferma, è arrivata la misura presa dal governo della Malaysia che nei giorni scorsi ha rafforzato la sorveglianza ai propri confini dichiarando esplicitamente che intende arrestare la fuoriuscita di militanti islamici diretti nei Paesi vicini, Thailandia in primis e poi anche Filippine e Indonesia. C’è quindi tutta una regione in sommovimento. Si teme che i militanti del sudest asiatico vogliano creare un’enclave autonoma, una specie di Stato islamico dell’estremo oriente.
Difficile distinguere fin dove arrivi il pericolo reale e dove invece subentri il solito spettro agitato dai governi per giustificare politiche autoritarie. È, questa, una pratica comune in tutti i Paesi asiatici: dall’Asia Centrale, dove fin dagli anni Novanta il pretesto di una “afghanizzazione” ha giustificato la repressione del dissenso da parte dei ras locali, alla Cina del pugno di ferro in Xinjiang, fino al Sudest asiatico. Sarebbe per altro ingenuo non riconoscere che esiste un problema di conflitti locali su cui si innesta una narrativa islamista.
Il presidente filippino Duterte è originario proprio di Mindanao, dove è stato per anni sindaco della città di Davao, in cui lo scorso settembre un attentato dinamitardo del Maute ha provocato 14 morti. Ha imposto la legge marziale in tutta l’isola, legge marziale che tecnicamente dovrebbe durare 60 giorni ma che lui ha già dichiarato con il suo solito piglio da sceriffo di voler estendere finché non risolverà il problema del terrorismo una volta per tutte. Questo approccio genera un problema con le altre istituzioni del Paese, perché le Filippine hanno creato contropoteri democratici contro la legge marziale dopo la caduta di Marcos nel 1987, proprio perché l’ex dittatore l’aveva utilizzata indiscriminatamente. È così che il conflitto di Marawi riecheggia anche a Manila.