Lunedì 15 maggio alle ore 21 presso l’Audiotorium di Radio Popolare, ICEI organizza per il ciclo “40 anni di politica estera”, l’incontro “Gli Stati Uniti da Reagan a Trump” con Roberto Festa e Davide Borsani. Conduce Michele Migone, l’ingresso è libero
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Gli Stati Uniti di 40 anni fa, dopo il test nel Cile di Pinochet, si preparavano a implementare la rivoluzione liberista di cui Ronald Reagan si sarebbe fatto portabandiera. Un mix di riforme finalizzato a deregolamentare buona parte dell’economia, aprendo ulteriormente il mercato alla libera concorrenza, precarizzando il lavoro, privatizzando in larga misura il welfare e con lo Stato che si ritirava parzialmente dalla gestione dell’economia. Una nuova visione del capitalismo disegnata nell’Università di Chicago dall’equipe di Milton Friedman. Gli anni ’80 furono anche quelli dello scontro virtuale, a colpi di investimenti in tecnologia militare, tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il decennio della paura del conflitto nucleare e delle guerre a bassa intensità, dall’Afghanistan al Nicaragua.
In apertura degli anni ’90 gli Stati Uniti erano ormai i vincitori della Guerra Fredda, ma le politiche precedentemente attuate in America Latina, Africa, Medio Oriente e Asia, tese ad arginare il comunismo senza porsi il problema del rispetto della democrazia e dei diritti umani, avevano loro alienato le simpatie di buona parte del pianeta. Nell’euforia di quegli anni, fu comunque sempre Washington a capeggiare una svolta profonda nei rapporti commerciali mondiali. La globalizzazione, che apriva i mercati e spostava lavoro e ricchezze in giro per il mondo, e che nessuno osava criticare, non solo fu voluta ma anche guidata dalle aziende multinazionali statunitensi, che divennero in breve tempo i primi marchi veramente globali. Ma quel decennio si chiuse tragicamente con gli attentati dell’11 settembre 2001, e con l’inizio di un nuovo conflitto, la Guerra al Terrore, dai contorni fumosi e con nemici spesso virtuali, comunque non localizzabili.
L’insegnamento che gli Stati Uniti avevano appreso dopo la guerra in Vietnam – cioè non impegnarsi mai più in conflitti militari che non potessero essere risolti in breve tempo e senza perdite rilevanti in termini di vite umane – fu dimenticato. Washington diede il via a due interventi ancora in corso, quello in Iraq e quello in Afghanistan. Il Medio Oriente è diventato così il fulcro degli interessi geopolitici statunitensi, ma in totale assenza di una strategia globale a lungo termine, che tuttora manca.
Gli eccessi degli anni del reaganismo e del clintonismo presentano il conto alla fine degli anni 2000, con la crisi dei mutui subprime che fa scoppiare la bolla della speculazione agevolata dalle deregolamentazioni del periodo precedente. È il primo presidente afroamericano della storia, Barack Obama, a farsi carico di un Paese compromesso su diversi fronti militari e con l’economia in panne. Le sue promesse elettorali relative alla fine dei conflitti che vedono impegnati gli Stati Uniti e alla chiusura del campo di detenzione di Guantanamo, illegale secondo il diritto internazionale, vengono presto dimenticate, ma le sue riforme e gli investimenti pubblici fanno ripartire l’economia.
Nel frattempo il mondo è cambiato. Nonostante la crescita del PIL, il “nuovo” lavoro non è adatto a ricreare occupazione nelle aree di vecchia industrializzazione svuotate dalle delocalizzazioni degli anni ’90. E nella società statunitense si allarga sempre di più il divario tra nuovi ricchi e vecchi poveri, tra le aree economicamente dinamiche, agganciate alla globalizzazione, e le aree che la stessa globalizzazione ha reso depresse, impoverite, prive di prospettive. Contraddizioni che portano, nel 2016, alla clamorosa elezione di un outsider alla guida degli Stati Uniti: Donald Trump, che è riuscito nell’impresa di racimolare il voto conservatore e ultraconservatore, insieme al voto di protesta di larghi ceti popolari chi in passato votavano democratico. La sua è una campagna elettorale vinta “a braccio”, senza l’appoggio di strutture partitiche ma “parlando chiaro”, secondo i canoni tradizionali del populismo. La rivale Hillary Clinton rappresentava invece quel mondo aperto, globalizzato, pericolosamente vicino ai grandi poteri economici e finanziari quotidianamente preso di mira dai comizi e dai tweet di Trump.
Ora gli Stati Uniti stanno ribadendo ancora una volta la loro centralità geopolitica. Ma lo stanno facendo in modo diverso rispetto al passato, rivoluzionando – per ora solo virtualmente – il sistema di relazioni economiche internazionali che loro stessi hanno costruito negli ultimi 25 anni e dal quale hanno ottenuto grandissimi vantaggi. La globalizzazione non va più bene, gli accordi multilaterali nemmeno e i migranti, sui quali si è costituita la nazione, sono ridotti soltanto a concorrenti sul mercato del lavoro interno.
Alla forza militare, che rimane impareggiabile, gli Stati Uniti aggiungono un peso economico globale, condizioni che ne fanno oggi l’unica vera potenza planetaria. Si tratta di un patrimonio troppo importante per essere dissipato da un improvvisato tribuno del popolo che, se non tutelerà gli interessi storici degli Stati Uniti e non darà segnali concreti al suo elettorato, al quale ha promesso tutto e il contrario di tutto, è destinato ad avere una carriera politica molto breve.