“Non posso iniziare trattamenti di fecondazione eterologa se non ho strumenti normativi”. E’ chiaro Maurizio Bini, ginecologo e responsabile del Centro per i disturbi della fertilità dell’Ospedale Niguarda di Milano.
Nelle strutture pubbliche lombarde la fecondazione eterologa resta sulla carta: ancora nessuna coppia ha potuto sottoporsi all’inseminazione da quando la sentenza 162/2014 della Corte Costituzionale ha stabilito che questa tecnica non potesse essere vietata.
Il perché emerge chiaramente dalle parole di Maurizio Bini: è una questione politica – dice il medico – e siccome mancano direttive regionali precise, io non posso iniziare ad operare.
Quella della Regione in effetti è stata una decisione politica ben precisa e dichiarata: la giunta Maroni è contraria alla fecondazione eterologa, non la considera servizio essenziale e dunque la fa pagare ai pazienti. Meglio – sostenne ai tempi Roberto Maroni – usare i soldi per anziani e disabili.
Bizzarro tra l’altro per una maggioranza che ha fatto della famiglia uno dei suoi cavalli di battaglia.
In altre regioni invece i trattamenti nelle strutture pubbliche sono già iniziati. Nel luglio scorso all’ospedale Careggi di Firenze è nato il primo bimbo con fecondazione eterologa.
Ma l’Italia – oltre al disastro della legge 40, incostituzionale in diversi suoi passaggi – sconta anche un grave problema di mentalità: scarseggiano, e talvolta mancano proprio, le donatrici e i donatori di ovuli e sperma. Dal suo osservatorio lombardo lo nota chiaramente Rossella Bartolucci, presidente della Onlus Sos Infertilità che ha presentato e vinto il ricorso al Tar della Lombardia
Intervista a Rossella Bartolucci