Andare avanti per non scoppiare. Come nel film Speed, dove il protagonista deve guidare un bus senza rallentare per non innescare la bomba. Così l’Unione Europea oggi è costretta a tentare un rilancio, pur sapendo che mai è stata così divisa, così in crisi di identità.
Lo sanno bene i 27 capi di stato e di governo che a Roma hanno rievocato la storica firma dei trattati europei del 1957. La scenografia era studiata per non farsi sfuggire alcun elemento simbolico. La sala del Campidoglio, la stessa di sessant’anni fa. Il vecchio trattato in bella vista, in originale, con le firme dei padri fondatori. I filmati in bianco e nero, con De Gasperi, Schuman e Adenauer. La retorica c’è stata, e non poteva essere altrimenti. Ma nella Dichiarazione di Roma, firmata da tutti e 27 i Paesi membri dell’Unione (non era scontato), c’è anche qualche spunto interessante.
Una spruzzata di insolito (per i barocchi documenti europei) pragmatismo: “Agendo singolarmente saremmo tagliati fuori dalle dinamiche mondiali”; “consapevoli delle preoccupazioni dei nostri cittadini”. C’è, ampiamente annunciato, il richiamo al principio delle diverse velocità. Viene messo nero su bianco, come intento politico da tutti e 27 accettato, che alcuni paesi possano andare avanti con l’integrazione anche se non tutti sono d’accordo. L’Europa a più velocità: “…a ritmi e con intensità diverse se necessario, ma procedendo nella stessa direzione e lasciando la porta aperta a coloro che vogliano associarsi successivamente”.
Ci sono poi quattro punti, elencati come “programma di Roma”. Sono i quattro ambiti su cui si vuol puntare per proseguire nell’integrazione.
Il primo parla di sicurezza dei cittadini europei e della gestione dei flussi migratori, che dovrà essere “responsabile e sostenibile”. Colpisce che, proprio la questione più difficile da affrontare, che ha messo in crisi e diviso l’Unione europea, sia quella a cui meno righe sono dedicate. E’ vero che siamo alla dichiarazione di princìpi, ma uno sforzo in più lo si poteva fare. E non è un buon segno.
Il secondo punto parla di economia. Di crescita, occupazione, coesione, come obiettivi da perseguire. Nessun cenno alla disciplina di bilancio, sparita. Dopo tanti danni, l’austerità non è più di moda, a quanto pare.
Il terzo punto parla di Europa sociale. L’elenco degli obiettivi è ampio e ambizioso. Lottare contro le discriminazioni, la povertà, promuovere le pari opportunità e i pari diritti, offrire più opportunità di lavoro ai giovani.
Il quarto e ultimo punto della Dichiarazione di Roma richiama il ruolo dell’Europa sullo scenario mondiale. Oggi ben sappiamo quanto poco pesi l’Unione europea sullo scacchiere delle crisi globali. Pochissimo. Qui si dice che si vuol rafforzare quel ruolo, puntare a una difesa europea comune. Per la verità se ne parla da decenni ma, anche per il ruolo della Nato, non se ne è mai fatto granché.
Dieci anni. Questo l’arco temporale che la Dichiarazione fissa per attuare i princìpi sottoscritti a Roma. “Faremo sì che il programma di oggi sia attuato e diventi la realtà di domani. L’Europa è il nostro futuro comune”. Così la Dichiarazione si chiude.
Durante la conferenza stampa finale, tenuta dal presidente del Consiglio italiano Gentiloni, dal presidente della Commissione Juncker, da quello del Consiglio europeo Tusk e dal primo ministro maltese (presidente di turno) Muscat, qualcuno chiede cosa ne pensino delle elezioni francesi e del rischio Le Pen. Gentiloni e Juncker si guardano bene dal prendere una posizione esplicita sulla politica interna di uno stato membro. Ma sottolineano più volte il ruolo essenziale della Francia dentro l’Unione. Come dire: dio ci scampi dal “Frexit” che vorrebbe la Le Pen.
Quello delle prossime elezioni francesi (23 aprile) è il primo scoglio sulla strada della Dichiarazione del Sessantesimo. Poi ci sarà il voto in Germania e quindi in Italia. Chi governerà a Parigi, Berlino e Roma? Non è indifferente se, per cinque anni, saranno forze euroscettiche. Ma non c’è solo questo scoglio sulla strada dell’Europa futura. Ci sono le divisioni, le gelosie nazionali, oggi alimentate dalle nuove spinte nazionaliste, ma già ben conosciute dalle cancellerie del continente. C’è l’irrisolta “questione Euro”, l’unica moneta del mondo a cui non corrispondono scelte di politica economica, ma tanti ministeri quanti sono i suoi membri. C’è la crisi dell’economia, che ha portato più disuguaglianze e meno lavoro.
Il 25 marzo 2017 non sarà ricordato come uno spartiacque. Al massimo come una tappa. Poteva andare peggio (nell’ottica di crede nel progetto europeo). Poteva essere solo un vuoto esercizio di auto-celebrazione. Qualche cosa in più c’è stato. E’ passato il messaggio che si vuole cambiare rotta, per poter proseguire.
Alla fine del film, l’autista del bus trovava il modo di salvare i passeggeri. Per l’Europa è forse l’ultima chiamata. Poi, non resta che affidarsi a Keanu Reeves.