“Via le mani dalle mie tasche” diceva un cartello esposto davanti al Parlamento libanese qualche giorno fa. Il governo voleva innalzare l’IVA di un punto percentuale: una tassa indiscriminata che avrebbe colpito tutti, anche i cittadini a basso reddito. Il centro di Beirut si è subito riempito di dimostranti, senza che nessun partito li convocasse.
Per la prima volta nella storia del Libano un premier del paese, Saad Hariri, è uscito dal suo palazzo per incontrare i manifestanti. La gente lo ha accolto gridando “ladro, ladro!” e tirandogli bottiglie di plastica vuote.
I manifestanti spiegavano in TV che non avevano niente contro le tasse. Soltanto, non volevano che i loro soldi finissero in corruzione, in mano a politici incapaci di creare qualsiasi servizio efficiente per i cittadini. In una settimana hanno vinto la battaglia: l’odiato aumento dell’IVA è stato accantonato. Il Parlamento libanese, per l’undicesimo anno consecutivo, non è riuscito ad approvare il bilancio.
In piazza c’era anche Marwan Maalouf, uno dei leader della protesta spontanea contro la spazzatura dell’estate 2015: “Non mi aspettavo di vedere tante persone in strada di nuovo, ma è successo. La gente non vuole nessuna nuova imposta, finché non tasseranno anche i miliardari, le banche e i gruppi di potere. C’è un vento di cambiamento in Libano. La gente è esasperata”.
Per molti attivisti libanesi, la protesta del luglio 2015 è stata un punto di svolta. Quell’estate venne chiusa la discarica che da 17 anni accoglieva tutti i rifiuti di Beirut. Aveva una capienza di 2 milioni tonnellate di rifiuti ed era arrivata a contenerne 15 milioni di tonnellate, fra le proteste di chi vi abitava vicino. Era chiaro da anni che la discarica doveva chiudere, ma il governo non si era curato di trovare un’alternativa.
A Beirut cessò da un giorno all’altro la raccolta dei rifiuti, perché l’azienda incaricata non aveva un posto dove portarli. Gli abitanti della capitale cominciarono ad andare al lavoro coprendosi il volto con mascherine, perché l’odore dei rifiuti esposti al caldo dell’estate libanese era diventato insopportabile.
“I rifiuti si accumularono per strada, ma per i nostri politici non era un problema” ricorda Marwan Maalouf. “Il solo problema era che la spazzatura attirava uccelli in gran numero e questi cominciarono a essere un pericolo per gli aerei che decollavano dall’aeroporto di Beirut. Allora le autorità, invece di rimuovere la spazzatura, pensarono di convocare i cacciatori per sparare agli uccelli. Pensate: trasportavano i gruppi di cacciatori con gli autobus della MEA, la compagnia aerea libanese!”.
I manifestanti piantarono le tende della protesta di fronte al Parlamento, a Beirut. Riuscirono anche – per alcune ore – a occupare il ministero delle Finanze. Alcuni scesero in sciopero della fame. Altri venivano tutti i giorni a buttare i loro sacchi di spazzatura nel giardino del Parlamento. La protesta si diffuse sui social media con l’hashtag #YouStink (Tu Puzzi) e si trasformò presto in una più estesa protesta contro la corruzione. Una sorta di “primavera” libanese.
Un anno dopo, nel 2016, si tennero le elezioni municipali a Beirut e molti attivisti di quella protesta crearono una lista civica, Beirut Madinati (Beirut è la mia città).
A quel punto tutti partiti tradizionali, nemici giurati fino al giorno prima – in alcuni casi gente che si era sparata addosso durante la guerra civile libanese – si coalizzarono in un’unica lista: cristiani, sciiti, sunniti e drusi serrarono le fila. Beirut Madinati ottenne il 35% dei voti a Beirut, ma a causa del sistema elettorale maggioritario restò fuori dal consiglio Comunale. Se ci fosse stato il sistema proporzionale, avrebbe avuto almeno 10 consiglieri su 27.
“Qui in Libano i partiti tradizionali si coalizzano fra loro, ogni volta che rischiano di perdere il potere” spiega Maalouf. “Non importa se si sono scambiati insulti fino al giorno prima. Anche i più acerrimi nemici possono candidarsi insieme, se temono di perdere la loro fetta di torta, i loro affari, i proventi della corruzione”.
“La classe politica libanese preferisce mantenere al potere sé stessa e i suoi avversari piuttosto che competere in un sistema politico libero” spiega Ayman Mhanna, direttore della Fondazione Samir Kassir. “Il concetto è: preferisco avere il diavolo alla mia tavola che qualcuno che non conosco”.
“Il nostro sistema politico è un sistema di democrazia consensuale” continua Maalouf. Il Libano è fatto da un mosaico di differenti comunità e religioni. “Nessun provvedimento può passare senza il consenso di tutte le parti. Anche chi perde le elezioni farà parte del governo, perché nessuna comunità può essere esclusa dal tavolo. Questo significa che i partiti non si sentono mai responsabili delle politiche che mettono in pratica. Ognuno ha la scusa per dire: volevo fare un altro modo, ma non ho il pieno controllo delle cose”.
Per tre ore al giorno, a Beirut, manca l’elettricità. Ogni giorno, in qualsiasi condominio o ufficio della città, arriva un momento in cui la luce si spegne di colpo. Qualche attimo dopo ritorna, perché vengono avviati i generatori privati. L’uso dei generatori, oltre a inquinare, fa salire enormemente il costo dell’elettricità per le famiglie.
Da anni, l’ente che fornisce energia elettrica ai libanesi non riesce a fornire energia sufficiente rispetto ai bisogni. Beirut è la città più fortunata del Libano, perché i black-out durano solo 3 ore al giorno. Ci sono città dove si arriva a 17-18 ore al giorno senza corrente elettrica.
“Il nostro problema principale è che lo Stato Libanese non funziona” continua Maalouf. “Io sono un attivista laico. Pazienza, se non posso fare una battaglia per uno stato laico. Mi andrebbe anche bene un sistema confessionale, se almeno questi politici riuscissero a fornire i servizi di base”.
Le ultime elezioni politiche in Libano si sono tenute nel 2009. Nel 2013 i libanesi avrebbero dovuto tornare alle urne, ma il voto è stato rimandato per due volte con diverse motivazioni: ci sono troppi rifugiati siriani nel paese, Hezbollah non è stato disarmato, ci vorrebbe una nuova legge elettorale (ma purtroppo i partiti non riescono ad accordarsi per cambiarla).
Secondo Marwan Maalouf sono tutte scuse. “Noi vogliamo andare a votare. Con qualsiasi legge elettorale. Il parlamento Libanese si è già esteso il suo mandato due volte ed è pronto a farlo una terza volta, negandoci un diritto di base: le elezioni”
Ayman Mhanna, analista della Fondazione Samir Kassir, ha una spiegazione per questo ritardo. “Finora le elezioni sono state rinviate con l’idea che qualcosa sarebbe accaduto a livello regionale che avrebbe dato vantaggio a una parte o all’altra. Una sconfitta del regime in Siria, ad esempio, avrebbe dato forza ai sunniti di Saad Hariri sostenuti dall’Arabia Saudita, a scapito di Hezbollah e Michel Aoun, sostenuti dall’Iran”.
Ma ora è chiaro che Assad resterà. “Né i paesi del Golfo né l’Occidente hanno la forza di cambiare la situazione” prosegue Mhanna. È questa consapevolezza che alla fine ha portato a un accordo fra le due principali coalizioni libanesi e all’elezione alla presidenza di Michel Aoun nell’ottobre 2016. Saad Hariri ha accettato l’accordo, diventando primo ministro”.
Qualche giorno fa persino il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha esortato ufficialmente il Libano a tenere le elezioni rispettando l’ultima data fissata, il 19 maggio 2017. Ma questo non sembra avere scosso i politici libanesi, secondo cui un rinvio di 6 mesi – o anche un anno – è ormai inevitabile.
Riusciranno i partiti ad accordarsi su una nuova legge elettorale? Ci sono state una 70ina di proposte, negli ultimi anni. La più accreditata prevede un sistema in cui metà dei deputati vengono eletti con il sistema maggioritario e l’altra metà con il sistema proporzionale sulla base delle comunità religiose (ovvero sciiti, sunniti, cristiani, drusi, alawiti…)
“Le elezioni in Libano sono care. I partiti hanno bisogno di tanti soldi: sia per pagare la campagna elettorale, sia per l’acquisto di voti” continua Ayman Mhanna. “Per questo di solito le elezioni avvengono quando c’è già un accordo fra tutti su come si spartiranno il potere dopo il voto”.
In Libano, gli elettori non votano nel luogo in cui risiedono, ma nella città o nel villaggio da cui proviene la loro famiglia. Un modo per tenere le persone legate alla loro comunità religiosa e per disconnetterle invece dal territorio in cui vivono. E non è il solo problema. Ad esempio, non c’è una scheda elettorale unica a livello nazionale.
“La proposta di creare una scheda elettorale unica e ufficiale è stata rigettata da tutti i partiti, purtroppo”, spiega Ayman Mhanna. “Oggi in Libano, qualsiasi foglio bianco – in base alla legge – può essere usato come scheda elettorale, scrivendovi sopra i nomi dei candidati. Un partito può addirittura stampare le schede e distribuirle ai votanti. Può usare caratteri tipografici diversi, per distinguere una scheda dall’altra e controllare chi ha votato per il partito e chi no. Questo va a colpire pesantemente la segretezza del voto”.
Marwan Maalouf – assieme ad altri attivisti – pensa di candidarsi. Ma cosa avverrà se il sistema elettorale di nuovo terrà le liste civiche fuori dal Parlamento, come è successo per le elezioni municipali? “Non importa se otterremo solo il 20-30%: sarà una percentuale che conterà comunque. Potremmo dire che rappresentiamo una fetta di popolazione e avremo il tempo per costruire un forte movimento politico per correre alle elezioni successive”.
Ottenere l’attenzione dei media non sembra un problema: “Ai tempi della protesta contro la spazzatura, abbiamo avuto grande spazio in TV. La protesta era diventata una specie di show e ha fatto crescere l’audience delle tv che parlavano di noi”.
“I partiti politici libanesi sono disconnessi dalla gente” conclude Hayman Mhanna. “Pensano di poter giocare per sempre carta settaria: quando una comunità si sente minacciata, alla fine si stringe attorno al suo leader. Ma il gioco ha funzionato finché la gente vedeva anche dei risultati concreti. Purtroppo, oggi il sistema politico è diventato incapace di fornire qualsiasi risposta ai bisogni dei cittadini”.