L’ultima volta che la musica cilena ha raggiunto in Bel Paese, è stato probabilmente quando nei primi anni ‘70 gli Inti Illimani, insieme a molti altri gruppi meno famosi da queste parti, cantavano di rivoluzione. Ed era musica andina, che aveva nel recupero delle radici e della tradizione una parte fondante delle propria sonorità. Diversa da tutto il resto, con un suo fascino riconoscibile, particolare.
O anche “una noia mortale” per citare il Dalla de “Il cucciolo Alfredo”.
Quasi quarant’anni dopo il Cile torna a farsi sentire attraverso un’artista che curiosamente, di quei quarant’anni fa, del Golpe e di una pagina terribilmente buia della storia del Sudamerica, è in qualche modo figlia.
Ana Tijoux è infatti cilena ma nata a Lille, in Francia, da genitori esuli e militanti del MIR, il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria. Ritornata in patria nell’adolescenza, Ana continua a fare musica portandosi dietro la ricchezza di un contesto multicultrale come quello francese, dove Marocco, Mozambico e decine di altre nazionalità convivono e vanno a far parte del background di Ana.
La sua musica è il rap, partito da sonorità molto classiche e approdato ora (dopo oltre una decina di album pubblicati da solista e insieme al suo precedente progetto, Makiza) a una musica hip-hop strumentale che riscopre i suoni e persino gli strumenti tipici del Latinoamerica, soprattutto con i suoi ultimi due dischi, La Bala (2011) e Vengo (2014).
Da sempre i testi di Ana Tijoux danno grande attenzione a tematiche sociali, ai diritti della donna, ai popoli oppressi e ai movimenti studenteschi in Cile. Per questo per molti rappresenta una voce rivoluzionaria, un’icona politica dalla quale lei stessa però rifugge, temendo la categorizzazione da cui un artista fa molta fatica a smarcarsi.
Di vita, musica e rivoluzione abbiamo parlato con Ana il 22 ottobre a Bookcity in occasione del suo concerto al Leoncavallo a Milano: qui potete riascoltare l’intervista completa all’interno di Jack, curata da Davide Facchini e Gianpiero Kesten.