Un palazzetto dello sport conserva dentro di sé storie di vita che restano, non si dimenticano. Il suo alfabeto sono esultanze, rumori di festa o di delusione. Quando le voci diventano sussurri, pianti, urla di una disperazione profonda come il mare è in occasione di tragedie che non hanno un posto abbastanza grande da contenerle.
In questi giorni, il parquet del palasport di Crotone è diventato un luogo di dolore. Tre strisce di linoleum a terra, in fila più di sessanta bare. Più di sessanta vite, interrotte nel naufragio di domenica 26 febbraio davanti alle spiagge di Steccato di Cutro, a una trentina di chilometri dal capoluogo. Su ogni bara c’è un mazzo di fiori. Al centro cinque sono più piccole, di colore diverso, bianco. I peluche appoggiati a quel legno raccontano tutto, non c’è bisogno di parole.
I loro familiari per qualche minuto si stringono in preghiera davanti a un imam. Sono originari soprattutto dell’Afghanistan, emigrati anni fa in Germania, in Regno Unito, qualcuno nel Nord Italia. Hanno fatto decine di ore d’auto con la morte nel cuore per riconoscere le salme dei loro cari, accarezzare quel legno, abbracciare un’ultima volta le loro bare. Diciannove ancora non hanno un nome. Hanno una sigla di numeri e lettere: l’età supposta, la possibile provenienza.
Attorno a questo palasport diventato una camera ardente, si muove con rispetto e partecipazione la comunità crotonese. Vicino all’ingresso hanno creato una distesa di fiori e lumini rossi. Nel buio della notte quelle fiamme tenui sembrano dire che un barlume di luce, nonostante tutto, resiste. A mandare messaggi alle vittime, con disegni appesi, frasi, sono anche bambini delle scuole primarie, medie e superiori di Crotone. In tante e tanti sentono il bisogno di dare una testimonianza.
Un cartellone appeso è firmato “Donne e madri di Steccato di Cutro”. Sopra c’è scritto: “Se la nostra spiaggia non ha accolto i vostri figli per la vita ma per la morte, perdonateci”.
Le vittime del mare non sono solo coloro che sono morti. Alcuni superstiti sono ancora ricoverati all’ospedale “San Giovanni Di Dio” di Crotone. Gli altri, una sessantina, sono ospitati nel centro di accoglienza per richiedenti asilo di Isola Capo Rizzuto, a una ventina di minuti di distanza. Ognuno di loro ha perso qualcuno nel naufragio. Gli operatori delle organizzazioni umanitarie li stanno assistendo, raccontano che l’orrore che hanno vissuto trapela in modo diversi, uno sguardo perso nel vuoto, il senso di colpa per essere sopravvissuti senza riuscire a mettere in salvo un amico, un fratello o una sorella, un figlio. Mara Eliana Tunno è psicologa di Medici senza Frontiere.
Tra i sopravvissuti, i bambini conservano la capacità di coinvolgere gli adulti anche nei momenti più difficili, come ci racconta Giovanna Di Benedetto di Save the Children.
“La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Sono le parole crudeli e meschine con cui il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha commentato in un primo momento questa tragedia in mare. Le indagini della procura di Crotone cercano ora di individuare i responsabili del naufragio, ma anche che cosa non ha funzionato con i soccorsi, perché non sia stato attivato nessun piano di salvataggio. Dal Governo italiano non è arrivato nulla, nemmeno un gesto di vicinanza ai familiari delle vittime e ai sopravvissuti. L’unico segnale di presenza dello Stato ha voluto mandarlo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La sua visita silenziosa alla camera ardente, quelle immagini che lo ritraggono in piedi davanti ai feretri, lo sguardo fermo, le labbra piegate verso il basso, sono state accompagnate dalle parole della folla di crotonesi che si è radunata per il suo arrivo. È risuonata chiara, ripetuta più volte, la parola “giustizia”. Una richiesta composta, senza gesti eclatanti, pronunciata con fermezza da chi è convinto che la strage potesse essere evitata se la salvezza di quelle vite in mare fosse stato il primo pensiero.
Il presidente Mattarella ha incontrato i superstiti all’ospedale di Crotone, ha stretto le mani dei parenti delle vittime, soprattutto ha ascoltato le loro richieste: rendere più semplici i ricongiungimenti dei sopravvissuti con le loro famiglie e poi fare il possibile per favorire il rimpatrio delle salme nei loro Paesi. Un’operazione particolarmente complessa per le famiglie afghane che chiedono che i corpi delle persone care vengano riportati nel loro paese d’origine.
“Vengo dall’Afghanistan, ma vivo in Germania – dice A., un giovane dallo sguardo esausto, gli occhi senza più lacrime – Sono qui a Crotone per mia zia e i suoi tre figli, sono morti e uno dei tre, un bambino, è ancora disperso. Ora è molto difficile per me, non riesco ad accettare quello che è successo e non so che cosa devo fare”. “Vivere in Afghanistan è molto difficile ora, è impossibile starci – continua – I miei parenti hanno vissuto e lavorato cinque anni in Turchia per avere abbastanza soldi da poter partire. Hanno trascorso quattro giorni in mare prima di arrivare in Italia. Mia zia era come una mamma per me, ho guidato 25 ore per raggiungerla. È durissima essere qua, però ci sono e farò di tutto per far recuperare il bambino disperso”.
Gli chiediamo quale sia la cosa più importante per lui in questo momento. “Trasportare i corpi in Afghanistan e dare la possibilità a mio zio di onorarli – risponde – Il presidente Mattarella ci ha assicurato che ci aiuterà. Sappiamo che è difficile, ma ha promesso di farlo”.
Le associazioni solidali di Crotone si spendono come non mai per non lasciare sole queste persone. Manuelita Scigliano è presidente dell’associazione Sabir. Insieme a suo marito Ramzi e ai loro collaboratori sono tra le persone che si stanno dando più da fare, da mattina a sera, per supportare i parenti delle vittime.
A Steccato di Cutro, le ricerche degli almeno trenta corpi dispersi proseguono. L’elicottero si alza in volo. Dopo giorni di vento forte e onde increspate, il mare è più calmo. Al campo base sulla spiaggia, si arriva anche in auto, tra scosse e sobbalzi. Una strada in terra battuta, sconnessa e piena di buche, fa lo slalom tra case disabitate oppure in costruzione. In inverno, questa frazione balneare è vuota. Le decine di migliaia di abitanti e turisti dell’estate, si riducono in tutto a 500 persone. Da queste parti tragedie non se n’erano mai viste, gli sbarchi di migranti avvenivano di solito in altri periodi dell’anno. Le persone che abitano più vicino alla spiaggia seguono quotidianamente le ricerche.VOCI DA STECCATOLe divisioni speciali di Vigili del fuoco e Protezione civile cominciano a lavorare quando fa chiaro e vanno avanti tutto il giorno. Anche con il buio però qualcuno che pattuglia la zona c’è sempre.
Alla foce del Tàcina, dove il fiume entra nel mar Jonio, lo scafo della barca distrutta marcisce tra il sale e la sabbia. Tutto intorno la strage è ancora viva, è custodita nel silenzio da una distesa di zainetti, scarpe e indumenti. Quelli più piccoli, solo a vederli, lacerano gli occhi e il cuore. In un prato poco distante il sole secca il fango su maglie e giubbotti che non hanno più un corpo da riscaldare.
Fissare lo sguardo troppo a lungo fa male. Il rumore delle onde accompagna le ricerche dei corpi ancora da ritrovare.
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