13 novembre 2018. Sono passati esattamente tre anni da quel venerdì 13 in cui un commando di terroristi islamici ha attaccato Parigi. Prima facendosi esplodere davanti allo Stade de France, dov’era in corso un’amichevole Francia-Germania, poi sparando sulle terrazze dei bar del 10° arrondissement, una zona molto frequentata da giovani di ogni tipo, complice anche il clima mite di quella sera.
Infine, con un assalto al Bataclan, dove c’era il tutto esaurito per un concerto rock, e ad altri due bar sulla via di fuga dei terroristi. Quella notte sono morte 130 persone,683 sono rimaste ferite, anche gravemente.
Secondo diversi studi condotti in questi tre anni dall’agenzia Sanità pubblica Francia con l’università Paris XIII, l’impatto psicologico degli eventi di quel giorno è stato ed è tutt’ora devastante. Gli psicologi hanno intervistato a più riprese circa 500 persone, tra vittime, familiari e testimoni dei fatti. Ma anche poliziotti, personale sanitario e volontari.
Il 18% della popolazione civile soffre di sindrome da stress post traumatico. Il 20% ha dei disturbi depressivi o da ansia e il 25% dichiara soffrire di disturbi psicosomatici. Tra i soccorritori, il tasso di PTSD varia tra il 3 e il 10%a seconda delle categorie e almeno in 14% soffre di disturbi da ansia. Nonostante i numeri siano molto preoccupanti, solo la metà di coloro che soffrono di qualche disturbo ha ricevuto un sostegno psicologico.
La ricerca sottolinea poi come le persone coinvolte abbiano aumentato il consumo di alcool, tabacco o marijuana. Si va dal 10% dei soccorritori al 36% dei parenti stretti delle vittime. Un’altra parte dello studio, inoltre, ha valutato l’impatto della copertura mediatica degli attentati sul grande pubblico: “I risultati hanno mostrato un legame diretto e reale tra il tempo passato a guardare le immagini degli attacchi e l’insorgenza di sintomi da stress post traumatico“.
Non deve quindi stupire che, mentre stamattina un corteo ufficiale commemorava le vittime degli attentati, la maggior parte dei sopravvissuti abbia preferito allontanarsi da Parigi e ignorare completamente le cerimonie pubbliche. Più che bandiere, memoriali e omaggi, i sopravvissuti e le famiglie delle vittime, con tutte le loro differenti sensibilità, aspettano con impazienza l’apertura del processo a quello che rimane della cellula terrorista. Salah Abdeslam in primis. Detenuto in isolamento in una prigione parigina dal 2016, è l’unico uomo ancora in vita del commando del 13 novembre e gli avvocati, ce ne sono più di 300 per 1700 parti civili, sperano che si decida a parlare.
Monitorato 24h su 24, Salah Abdeslam si era murato nel silenzio, ma pare che negli ultimi tempi abbia ricominciato a esprimersi, anche se si tratta semplicemente di borbottii e insulti verso le guardie o gli infedeli. Un segno di rabbia che è comunque molto più incoraggiante del mutismo catatonico a cui aveva abituato i suoi interlocutori. Anche perché, l’inchiesta, che dovrebbe chiudersi al massimo a settembre dell’anno prossimo per rispettare i limiti delle detenzioni provvisorie, non ha ancora chiarito tutti i punti della vicenda. Ad esempio il ruolo dei fratelli Clain, che hanno dato voce alla rivendicazione dell’ISIS, o il numero esatto dei terroristi implicati.
Ad oggi, il processo che si dovrebbe aprire nel 2020 contra 11 imputati e altre sette persone sono ricercate. La maggior parte degli indagati è in prigione in Francia o in Belgio, compresi due uomini che avrebbero dovuto compiere un altro attentato a Parigi, sempre la sera del 13 novembre, ma che erano stati arrestati in Austria; la cellula che ha colpito Bruxelles nel marzo 2016 e persino Yasine Atar, il fratellino di uno dei “cervelli” degli attentati, Oussama Atar. Quest’ultimo, stando alle rivelazioni del giornalista Matthieu Suc che si basa su informazioni dei servizi segreti, sarebbe stato ucciso nel novembre scorso da un attacco mirato in Siria. Come tutti gli altri sei responsabili dell’ISIS considerati i mandanti degli attacchi del 13 novembre.