“Io e Luca ci siamo conosciuti un anno prima che gli venisse diagnostica la sclerosi laterale amiotrofica, era il 1994. Per un anno abbiamo vissuto una vita normale. Poi la terribile diagnosi della malattia”. Maria Antonietta Farina Coscioni parla della sua storia con Luca con grande fermezza. Non si lascia sopraffare dall’emozione, come se quella forza, la forza della battaglia di suo marito, le fosse rimasta dentro. E forse è proprio così.
“Il 20 febbraio del 2006 Luca muore. Ma io ricordo sempre le parole le parole di Marco Pannella che disse: ‘Oggi Luca nasce per l’Italia’. Allora i messaggi di cordoglio ed elogio per il suo impegno civile e politico furono molto toccanti. E arrivarono anche da chi quando era in vita lo aveva ostacolato”.
Che rapporto aveva Luca con il suo corpo, con la malattia?
“Luca aveva un bellissimo rapporto con il suo corpo. Lui era un maratoneta. Non è uno sport comune, è uno sport che gli ha permesso di avere una resistenza forte, anche psichica dopo un primo momento di forte turbamento, quando gli venne diagnosticata la Sla. Lo scoramento iniziale per quella maledizione, voluta non si sa da chi, ha poi lasciato il posto alla forza di volontà per un obiettivo, quello della testimonianza politica”.
Come sono stati quegli otto anni?
“I suoi otto anni con la sclerosi sono stati molto duri ma nella quotidianità abbiamo trovato il modo di inventarci una maniera per non mollare. Ed è stato quello di legarci alle storie di altri cittadini, storie di diritti negati”.
Voi vi siete sposati nel 1999, quando la malattia ormai era avanzata. Avete avuto dei dubbi su questa scelta?
“Credo che la scelta abbia avuto anche un pizzico di incoscienza. Sicuramente se ci fossimo fermati a pensare ai condizionamenti che avremmo potuto subire per la malattia, a quella sorta di isolamento naturale che si crea di fronte a una malattia così devastante, sicuramente ci saremmo fermati. Non averlo fatto invece ci ha dato la forza di incontrare altri amici, altri compagni di viaggio”.
Il mare. È stato importante per la vita di Luca, lo amava molto….
“Sì, aveva un catamarano giallo con cui amava veleggiare. La sua spiaggia del cuore era Porto Santo Stefano, sull’isola del Giglio. E infatti proprio al largo del Giglio, nel giugno del 2006 abbiamo disperso le sue ceneri, così come era la sua volontà. In quel mare in qualche modo è tornato a essere materia e coscienza e così a riappropriarsi di quella libertà che la sclerosi gli aveva sottratto”.
La battaglia di Luca è diventata poi anche la sua battaglia.
“In questi anni la mia battaglia si è rafforzata, anche trasformata: oggi non c’è solo l’Associazione Luca Coscioni ma anche l’Istituto Luca Coscioni, nato un anno fa. Ha lo scopo di promuovere il dibattito e il confronto tra il potere delle parole e le parole del potere che domina sulle nostre vite, sulle vite dei cittadini quando si parla di disabilità, di malattia, di vita e di morte. Bisogna trovare un terreno comune, anche nelle parole, quando si parla dei temi cosiddetti eticamente sensibili. È un obiettivo per me oggi irrinunciabile ed è la battaglia di Luca”.
Ma gli obiettivi che Luca si è prefissato oggi in Italia non sono ancora realizzati…
“È vero. Non sono realizzati. Oggi la ricerca sulle cellule staminali embrionali può essere fatta solo importando linee embrionali dall’estero. Oggi non abbiamo nel nostro Paese una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Far uso della tecnologia medica anche nei momenti iniziali della vita oggi è fortemente limitato, vediamo tutta la questione legata alla fecondazione medicalmente assistita. Tutte questioni che riguardano la vita di milioni di cittadini italiani”.
Cosa porta dentro di sé dell’esperienza vissuta con Luca?
“Il rigore. Il principio di rispetto della volontà altrui. Ecco perché per me è stato fondamentale il rispetto della sua volontà che ha riguardato gli ultimi istanti della sua vita. Cioè quello di non voler essere sottoposto a un intervento di tracheostomia che gli avrebbe permesso di continuare a respirare. Quindi il rispetto della persona e il guardarsi bene dalle falsità e dalle ipocrisie di chi porta avanti politiche sbagliate in nome delle persone che soffrono”.
Ma dove trova la forza di fare del proprio dramma una battaglia per gli altri?
“Nella speranza che la conduzione di una lotta per combattere malattie oggi devastanti e per il rispetto dei diritti dei malati possa riguardare le future generazioni”.