Luigi Ambrosio: cosa ne pensi del reddito di cittadinanza?
Francesca Coin: anzitutto quello che mi colpisce è la narrazione ardita con cui viene presentato. Luigi di Maio con l’espressione spiritata che lo contraddistingue in questi giorni è arrivato eroicamente a dire che stanno investendo sulla felicità e il sorriso degli italiani – complimenti. In verità la proposta del reddito di cittadinanza, per come viene presentata in questi giorni, temo finisca per creare più povertà di quella che dice di voler eliminare. Il governo ha deciso di stanziare 10 miliardi (8 miliardi secondo Salvini) per garantire un sostegno di 780 euro al mese a 6,5 milioni di persone (esclusivamente di cittadinanza italiana) in base all’Isee.
Il problema è che il governo muove da una assunzione di fondo di che cosa sia la povertà semplicemente sbagliata. Nella loro interpretazione, la povertà non è il dramma che ha colpito tutti coloro che, loro malgrado, si sono trovati a crescere o a invecchiare in un Paese che, negli ultimi vent’anni, ha perso un terzo della propria struttura produttiva, tagliato gli investimenti – il rapporto Sivmez 2015 parlava di un “crollo epocale” degli investimenti nell’industria a Sud, tre volte in più rispetto al già calo del Centro-Nord. Non è il dramma che ha colpito tutti coloro che si sono trovati ad assistere impotenti a politiche del lavoro che, nella sostanza, si fondano ancora su sgravi alle aziende e lavoro precario o gratuito – si pensi all’Alternanza Scuola lavoro. Tutte queste politiche hanno fatto sì che in Italia sia cresciuta la fascia del lavoro povero – il numero di persone che sono povere anche se svolgono due o tre lavori, banalmente perché il loro lavoro è retribuito troppo poco. Il Governo non interviene in questo; non va a sanare questa situazione. Il Governo si preoccupa di chi diventa povero perché non ha voglia di lavorare o perché spende male i propri soldi – una tipologia di povertà che forse, nell’Italia attuale, nemmeno esiste.
Luigi Ambrosio: e come interviene?
Francesca Coin: interviene in due modi, la prima è assicurarsi che i poveri lavorino in qualunque condizione, anche se si tratta di lavorare per un call center che retribuisce 33 centesimi all’ora, come è stato denunciato lo scorso anno. La logica di fondo è che la povertà non è mai conseguenza della diseguaglianza sociale. I poveri sono poveri perché sono irresponsabili. Pensiamo solo agli scritti di Defoe, di Malthus o alla più recente “cultura della povertà” che ancora domina il dibattito mainstream. In base a queste interpretazioni, la povertà non è una questione strutturale che rimanda alle diseguaglianze sociali ma è una questione morale. I poveri sono moralmente responsabili della loro condizione, il che significa che, per porre fine al problema della povertà, il governo deve controllarli. Ti propongono di lavorare a 33 centesimi all’ora? Non puoi rifiutare perché sennò ti tolgono il sussidio. Ti propongono di lavorare per 1,50 euro all’ora? Non puoi rifiutare sennò sei uno sfaticato. E’ così che nel tentativo di eliminare una tipologia di povertà che non esiste, questa politica ne crea un’altra assai più reale, la povertà da bassi salari. Inoltre, stando alle dichiarazioni di Di Maio, per poter incassare il sussidio i richiedenti dovranno prestare 8 ore di lavoro gratuito a settimana nel proprio Comune di residenza, secondo la logica del do ut des: lo stato dà qualcosa a te e tu dai qualcosa a lui. E dunque, se la povertà è conseguenza di salari troppo bassi e diseguaglianze sociali troppo elevate, il reddito di cittadinanza proposto da Di Maio che cosa fa? Ne crea ancora di più.
Luigi Ambrosio: E il secondo intervento?
Francesca Coin: Il secondo intervento è ugualmente problematico perché si propone di impedire che i poveri spendano male i propri soldi. E’ lo stesso discorso di prima, essendo la povertà sostanzialmente una colpa individuale, i poveri è bene controllarli. È bene controllare, come ha detto Di Maio, che non spendano il proprio denaro in modo immorale bensì in beni di prima necessità. Allora potranno comprare il pane ma non le sigarette, per usare gli esempi che ha fatto. La questione del monitoraggio e della tracciabilità delle transazioni crea un ulteriore problema. Stiamo sottovalutando la questione della tracciabilità. In Cina per esempio è stato recentemente introdotto un sistema Sistema di Credito Sociale piuttosto impressionante, finalizzato a classificare la reputazione di tutti i cittadini. In poche parole, questo sistema si serve dei big data per assegnare a ciascuno un credit score, un punteggio calcolato in base alla capacità di essere puntuale con i pagamenti – pagare le bollette, le rate del mutuo, le tasse nei tempi previsti. Sulla base dei dati raccolti da piattaforme digitali come Alibaba, Alipay o Wechat, il sistema calcola la capacità di ogni cittadino di pagare i propri debiti. Su questa base, attribuisce a ciascuno un punteggio che indica se la persona è affidabile o meno – in base a quello sarà ricompensata o punita. Negli ultimi mesi, questo sistema di monitoraggio di massa è stato criticato perché, come ha scritto Channel News Asia a marzo riprendendo le statistiche ufficiali, ha portato nove milioni di persone con basso reddito a non poter compare biglietti del treno o dell’aereo, come punizione, a non poter iscrivere i propri figli nelle scuole superiori, o a non poter fare colloqui di lavoro per grandi aziende, in quanto dentro della lista nera pubblica delle persone non affidabili. Human Rights Watch l’ha definito un sistema “chilling” – che fa rabbrividire – una specie di “Grande Fratello fuori controllo”. Quando parliamo di tracciabilità, ci riferiamo in potenza a forme di controllo come questa. E anche qui, il presupposto di partenza è sempre lo stesso, che bisogna controllare come le persone spendono il proprio denaro, perché la povertà dipende dalle loro condotte dissipate – non da salari troppo bassi né dalla diseguaglianza sociale.
Luigi Ambrosio: quindi il tuo parere è sostanzialmente negativo?
Francesca Coin: interamente negativo. Perché al di là del controllo di massa sui consumi che politiche come questa impongono nelle fasce più vulnerabili della popolazione, pensiamo veramente di risolvere il problema della povertà costringendo le persone a vendersi al ribasso? Pensiamo veramente di eliminare la povertà trasformando le tutele sociali in un ricatto? O forse contribuiamo a crearla, in questo modo, la povertà? Bisognerebbe rileggere la storia del sistema assistenziale inglese nell’Ottocento, perché mi sembra che stiamo andando pericolosamente nella stessa direzione. Ma forse è troppo da chiedere, in una fase come questa, in cui la politica sembra fondarsi sempre meno sulla capacità di avere una visione sociale e sempre più sulla manipolazione emotiva di massa.