Il Messico è stato e resta, malgrado le difficoltà, un grande Paese. È lo Stato più popoloso al mondo tra quelli di lingua castigliana, il terzo in America per PIL dopo USA e Brasile. L’ex impero azteco è stato attraversato dalla grande storia degli ultimi secoli: qui fu scritta la pagina più drammatica della Conquista spagnola e si generò la prima rivoluzione del ’900, un movimento di popolo per il diritto alla terra con condottieri dal calibro di Emiliano Zapata e Pancho Villa.
Il Messico post rivoluzionario fu una “dittatura perfetta”, per citare lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. Nel senso che il partito erede di quella stagione, il PRI (Partido Revolucionario Institucional), ha governato da solo per quasi 70 anni trasformandosi, da custode dei valori della Rivoluzione, in sostenitore del liberismo, arrivando a spingere sulle privatizzazioni e a firmare l’accordo Nafta con Stati Uniti e Canada. Il tutto farcito da livelli di corruzione indescrivibili, tipici dei regimi nei quali non è previsto il ricambio della dirigenza politica.
Il monopolio del PRI si è interrotto nel 2000 con la prima vittoria in assoluto della destra del PAN, che ha trionfato di nuovo nel 2006. Quando, nel 2012, Enrique Peña Nieto del PRI si è imposto alle elezioni presidenziali, pur tra mille polemiche sulla limpidezza del risultato, tutto pareva tornare alla normalità. Invece i disastri di questi anni, attribuiti alla politica, porteranno ora, per la prima volta, alla sicura vittoria di un esponente della sinistra. La débâcle di Peña Nieto è stata il saldo tragico della sua personale “lotta alla droga”, che ha prodotto decine di migliaia di morti e di desaparecidos senza però diminuire il potere dei cartelli.
Dal 1994 in poi, infatti, il Messico è diventato la porta d’ingresso del mercato consumatore più grande al mondo, gli Stati Uniti. Una volta abbandonata la via della Florida, con la firma del Nafta il traffico si spostò sui camion e dentro i tunnel sotto il confine del Río Bravo. I cartelli della droga messicani, da corrieri dei colombiani, sono così diventati i protagonisti non solo della commercializzazione della cocaina sudamericana ma anche della produzione dell’eroina e della metanfetamina a basso costo che hanno invaso le strade statunitensi. Oggi il potere dei cartelli, oltre che con il traffico di stupefacenti, si esprime attraverso il controllo del territorio, con la complicità degli organi dello Stato.
Contro tutto questo voteranno i messicani eleggendo Andrés Manuel López Obrador, conosciuto con l’acronimo Amlo, un fuoriuscito dal PRI diventato popolarissimo sindaco di Città del Messico. Amlo è già stato sconfitto due volte, sicuramente in modo illecito la seconda, ma ora stacca di parecchi punti i suoi rivali del PAN e del PRI, entrambi associati ai fallimenti e ai lutti di questi ultimi anni. López Obrador ha 64 anni: laureato in scienze politiche e gestione dello Stato, si presenta come leader di Morena (Movimiento de Regeneración Nacional). Il suo background politico è quello della sinistra nazionalista storica dell’America Latina. Più vicino a Chávez e a Morales che a Mujica o a Lula, con forti dosi di retorica antipolitica e giustizialista.
López Obrador, però, sa che oggi è improponibile prendere a modello il Venezuela bolivariano, soprattutto quando si deve governare un Paese nel quale lo Stato ha perso il controllo di vaste fette del territorio, con forze dell’ordine al servizio dei cartelli della droga, e che dipende all’80% dagli scambi con gli Stati Uniti. Ed è proprio quella la prima grana in materia economica che il nuovo presidente dovrà affrontare, dopo le minacce (per ora verbali) di fare saltare il Nafta da parte di Donald Trump.
Il Messico resta un grande Paese, ma i messicani sono esasperati e dal nuovo presidente si aspettano che possa ridare dignità allo Stato, ma con ricette di sinistra. Il Messico dei prossimi anni, dopo un lungo periodo di discesa negli inferi, sarà un interessante laboratorio politico da seguire.