Lo spettacolo che la classe politica italiana sta offrendo dopo le elezioni del 4 marzo è indecente.
Non si erano mai visti, nella storia della Repubblica, una tale noncuranza per il bene del paese e una così profonda mancanza di senso dello Stato.
60 giorni fa si aprivano le urne. 60 giorni dopo, i veti incrociati, le lotte politiche interne ai partiti e alle coalizioni, l’incapacità di ragionare in termini diversi dalla campagna elettorale permanente bloccano l’Italia. La carta in mano al presidente della Repubblica, il governo istituzionale, ha poche possibilità di successo. L’ipotesi che si debba tornare a votare diventa sempre più consistente. Ma tornare a votare per ottenere cosa? Forse uno sfondamento della destra di Salvini che, alleata a Forza Italia e agli altri partiti della coalizione, potrebbe avvicinarsi alla maggioranza assoluta. O, forse, una riproposizione degli equilibri usciti dal 4 marzo.
La responsabilità è di tutti.
Il Movimento 5 Stelle, dopo avere conquistato oltre il 32 per cento dei consensi, sostanzialmente non sa che farsene. La rigidità assoluta con cui Luigi Di Maio e Davide Casaleggio hanno gestito le trattative per formare un governo ha contribuito in maniera determinante a rendere impossibile qualsiasi ipotesi di accordo. Il recente appello di Di Maio a Salvini perché insieme chiedano al presidente della Repubblica di tornare alle urne è una mossa velleitaria.
Salvini, da parte sua, è l’altro vincitore inconcludente delle elezioni del 4 marzo. Fino a oggi non è riuscito a emanciparsi da Berlusconi, lasciando che fosse il capo di Forza Italia a dettare le strategie del centrodestra. In futuro tutti ricorderanno una fotografia: quella di Salvini che parla alla stampa dopo essere uscito dalle consultazioni al Quirinale con Berlusconi al suo fianco che gli ruba la scena assumendo la posa del ventriloquo che dà voce al pupazzo.
Chi frequenta le riunioni riservate e gli scambi nelle chat interne al Pd racconta di un partito composto ormai da separati in casa in guerra tra loro e che si sforzano, in pubblico, di continuare a usare termini quali ‘comunità’. Nella realtà, Renzi e i suoi oppositori hanno interpretato le settimane successive al voto come l’occasione per continuare la battaglia politica. Renzi non riesce ad assumersi le responsabilità delle sconfitte, prima il referendum costituzionale e poi le elezioni politiche. La sua narrazione è del tutto priva di autocritica. Anche dopo le dimissioni dalla segreteria, mantiene di fatto il controllo del partito a causa della debolezza dei suoi avversari: mancano, a tutt’oggi, candidature alternative davvero convincenti per gli iscritti e per il cosiddetto ‘popolo delle primarie’. Un congresso permanente, quello del Pd, un partito che ha smarrito l’attitudine a indicare un interesse generale per il paese.
La situazione, man mano che passano i giorni e le settimane, diventa sempre più seria.
Il paragone con la Germania, dove Spd e Cdu hanno siglato l’accordo per un governo di grande coalizione dopo quattro mesi, è improponibile. A Berlino socialdemocratici e conservatori hanno lavorato duro per stilare un patto di governo dettagliatissimo, composto da centinaia di pagine. A Roma, il solo obiettivo chiaro nella testa dei protagonisti politici è quello di distruggere il nemico. Quello esterno e quello interno.
Una classe politica nel complesso mediocre, che dovrebbe guidare uno dei paesi più importanti dell’Unione Europea.
Questa situazione giornalisticamente è stata definita di stallo e nei fatti rappresenta un pericolo per la democrazia, perché la democrazia rischia di apparire delegittimata agli occhi di sempre più italiani.