Questo articolo è stato pubblicato originariamente su China Files .
Hanno fatto conoscenza reciproca. Nessun accordo significativo su commercio e Corea del Nord. Questo è in sintesi l’esito del summit di Mar-a-lago tra Donald Trump e Xi Jinping, presidenti delle due superpotenze globali, un summit su cui aleggiava l’ombra dell’attacco missilistico in Siria , avvenuto proprio mentre i due leader e il loro seguito consumavano la cena nel primo giorno dei colloqui. Non è chiaro se Xi fosse stato avvertito, come e quando. Dichiarazioni sparse da parte della delegazione Usa, bocche cucite sul lato cinese. Il risultato più concreto sembrerebbe l’avvio di un “piano dei cento giorni” per discutere le questioni commerciali. Del resto, i cinesi l’avevano annunciato con ampio anticipo: un incontro di 18 ore – il tempo complessivo che Xi e Trump hanno trascorso insieme – è solo l’inizio di una relazione che lo stesso Trump ha definito “di lunga durata”.
Il segretario al Commercio Wilbur Ross ha dichiarato che anche la Cina è preoccupata per il deficit statunitense nell’interscambio tra i due Paesi, 347 miliardi di dollari nel 2016. Loro, i protagonisti, hanno rilasciato commenti stringati secondo il proprio stile. Trump ha definito “eccezionale” (outstanding) la relazione tra lui e il presidente Xi. Il quale, da parte sua, ha ringraziato il munifico ospite e ha definito il summit “utile allo scopo di far progredire il rapporto Stati Uniti-Cina”. La cosa più importante – ha detto Xi – “è che abbiamo migliorato la comprensione e stabilito una sorta di fiducia; abbiamo dato inizio a un rapporto di lavoro e di amicizia”.
La Cina, in diplomazia e non solo, non cerca quasi mai di definire obiettivi misurabili nero su bianco, bensì di costruire piattaforme – ambienti – attraverso cui i processi possano proseguire con aggiustamenti continui. Al cambiare delle circostanze possono cambiare gli obiettivi, per cui l’importante è stabilire le regole dell’interazione reciproca e promettersi fiducia reciproca. Costruire prevedibilità. E poi i risultati salteranno fuori, vedrete. Del resto, una situazione congelata è già un risultato che evita il peggio, per i cinesi. In questo senso, Xi Jinping avrebbe proposto a Donald Trump “quattro meccanismi di consultazione paralleli” sui temi più spinosi – tra cui il commercio e la sicurezza informatica – per sostituire il defunto “dialogo strategico ed economico” (S&ED) che, dal 2009 e attraverso incontri periodici, serviva a contenere gli interessi divergenti e spesso conflittuali tra i due Paesi. Una nuova piattaforma è la proposta dei cinesi.
Così, il summit con Trump può essere salutato come un parziale successo da Xi Jinping che a novembre ha il congresso del Partito in cui dovrà compiere il grande rimpasto della commissione permanente del Politburo – cioè la stanza dei bottoni composta dai sette che di fatto governano la Cina – e aveva bisogno di incanalare la relazione con gli Usa in pratiche consolidate. Le ripetute dichiarazioni di Trump sulla “amicizia” che si prospetta di lungo periodo sono in questo senso fieno in cascina, così come la promessa di un nuovo incontro, questa volta a Pechino. Certo, c’è quello spiacevole bombardamento missilistico, che ha sicuramente imbarazzato Xi. L’attacco ordinato da Trump in contemporanea con il summit è sembrato quasi un tentativo di far saltare il banco – un bluff? – per cogliere la controparte di sorpresa. Una scortesia, quasi una trappola, che difficilmente i cinesi scorderanno.
Parlando a nuora perché suocera intenda, Washington ha voluto forse chiarire che anche per la Corea del Nord potrebbe prefigurarsi una soluzione del genere se Pechino non riuscirà a riportare Kim Jong-un a più miti consigli. Minaccia di difficile realizzazione, per altro: la Corea del Nord non è la Siria, la differenza passa per l’arsenale nucleare e i missili balistici a disposizione del giovane Kim. Tra i due presidenti non c’è stato accordo sul dossier nordcoreano, dunque, anche se la delegazione Usa ci ha tenuto a comunicare che lo stesso Xi ha definito la situazione nella penisola “molto grave”.
Ma l’impasse è dato dal fatto che la Cina insiste sulla formula dialogo-più-sanzioni Onu, mentre Washington non intende sedersi a nessun tavolo con Pyongyang. Ora, fonti Usa si affrettano a dire che non esiste nessuna relazione tra la visita del presidente cinese e la decisione di bombardare la base aerea in Siria ed è probabile che i cinesi accettino questa versione, che salva la faccia pure a loro. Ma nel consueto briefing con la stampa straniera del giovedì, il ministero degli Esteri di Pechino ci ha tenuto a ribadire che la Cina non interferisce nelle questioni interne di altri Paesi e che Assad è stato eletto dal popolo siriano, di cui bisogna rispettare le scelte. “Se gli ultimi eventi significhino un cambio di linea da parte dell’amministrazione Usa – ha detto il portavoce del ministero – bisogna chiederlo alla stessa amministrazione Usa”. Ha poi insistito sul fatto che la comunità internazionale deve spingere per un accordo che porti la pace e mantenga la stabilità, deve intensificare il proprio appoggio alle Nazioni Unite, favorire la mediazione e la fiducia reciproca affinché i colloqui di pace abbiano successo. Degno di nota anche il fatto che sull’attacco chimico di Idlib, con cui l’amministrazione Trump giustifica il bombardamento missilistico, Pechino chieda un’inchiesta indipendente “che arrivi a prove certe sulle responsabilità”, dato che “qualsiasi conclusione deve basarsi sui fatti”. Insomma, la Cina non appoggerà mai l’unilateralismo che sembra tornare in voga a Washington.