Artan Shabani è il direttore della Galleria d’Arte Moderna a Tirana, Albania. Venticinque anni fa sbarcò sulle coste italiane, in cerca di un lavoro e di un futuro. Visse da clandestino e poi divenne un artista famoso. Pensando ai migranti di oggi che spesso non trovano accoglienza, ci racconta quei giorni.
“Nell’ottobre del 1991 sono partito da Valona, la mia città natale, come tanti giovani albanesi, per raggiungere le coste italiane. Il mio sogno – la mia New York – era Otranto, la Puglia. Eravamo in 13 su quella barca a vela”.
Il viaggio di Artan Shabani non avvenne su grandi navi come la Vlora, che portò in Italia 20 mila persone in un solo giorno. Utilizzò una piccola barca assieme ad altri compagni di viaggio che volevano raggiungere l’Italia. L’Albania gli stava franando intorno. La dittatura e l’isolamento erano finiti con il crollo del Muro di Berlino, lasciando un pericoloso vuoto, scontri, violenze e una povertà senza speranza.
“Il mio viaggio è stato la mia prima mostra – racconta Shabani – una mostra galleggiante, non pubblicizzata. Una performance artistica che non fa parte del mio curriculum, ma del mio essere. Il visto sul mio passaporto l’ho dipinto io: ci ho messo due mesi. Ho imitato un visto originale dell’ambasciata italiana, cambiando i dati e mettendo il mio nome. Era un visto falso, ma sembrava più vero degli originali.
Ho dipinto la mia libertà, il mio sogno, la mia fuga. Per me quel visto oggi è in un’icona, un capolavoro. Non ho più quel passaporto, ma lo ricomprerei volentieri, per riavere quella pagina e per la storia che c’è dietro.
Io oggi rido: sembra una telenovela! Puoi immaginare un ragazzo che a 21 anni dipinge il suo visto, attraversa l’Adriatico, incontra un Carabiniere che gli guarda il passaporto e lo fa passare? ‘A posto, può andare’. Lì è iniziato il mio viaggio in Italia che è durato all’incirca 23 anni”.
Quando è sbarcato, sapeva dove andare?
“Non sapevo dove andare e non conoscevo nessuno; non avevo soldi, non parlavo italiano ma ero sereno e felice. Felice perché ero finalmente su una terra desiderata da tanti. Dopo un paio di settimane ho trovato lavoro – in nero – in una pescheria.
Con il mio primo stipendio ho comprato i colori per dipingere, delle tele e un libro sulla storia della pittura italiana. Avrei potuto fare qualsiasi lavoro: l’importante era imparare l’italiano, avere qualche soldo in tasca e cominciare a conoscere il paese in cui mi trovavo.
Dunque la mia storia è cominciata a Otranto. Poi sono arrivato a Corigliano d’Otranto dove ho restaurato parte di un castello che si chiama Castello Ducale De Monti. Ho vissuto in una famiglia davvero nobile, che continuo a stimare che mi ha dato quello di cui tutti abbiamo bisogno: l’affetto.
In Puglia ho scoperto forse le persone più belle del mondo: più belle di anima, di sentimento; gente calma, aperta, di cuore. Perché loro hanno conosciuto l’emigrazione, la sofferenza, hanno il senso forte della famiglia. Sono disposte ad aiutare chiunque. Questa cosa mi ha colpito molto”.
Ma poi ha lasciato la Puglia.
“In Salento, in Puglia, sentivo che qualcosa mi mancava. Mi mancava il sistema dell’Arte, la vita culturale: mi mancavano le mostre. Il Salento è un’isola felice ma lontana dall’Europa. Io cercavo qualcosa che oggi si trova magari a Berlino: un conflitto fra l’arte e la società, un’opposizione intellettuale che si sente, si vede, si tocca, si mastica.
In questa mia ricerca, sono infine approdato a Torino, che per me è la capitale della cultura italiana. Torino era avanti come cultura politica, letteraria, cultura del pensiero critico, del lavoro, cultura museale. Per quanto riguarda l’arte contemporanea, c’erano tantissimi artisti come Mario Mertz (con l’Arte Povera) e Zorio.
Torino è una città nota per essere discreta, silenziosa, molto difficile e estremamente chiusa. Ma in realtà non è chiusa: Torino è solo attenta a chi concedere l’applauso, il successo. Questo ambiente mi ha messo alla prova, mi ha cresciuto. Il mio dna di persona adulta si è formato a Torino. Li devi combattere con l’intelligenza, non con i muscoli.
Dopo Torino sono rimasto colpito da Trieste, città mitteleuropea. Però quello che ho trovato a Torino non l’ho trovato in altre città d’Italia. Altrove c’erano tante cose belle e una vita più facile. Ma se uno ce la fa a Torino, ce la fa anche sulla luna o su un altro pianeta. Più che una città, Torino è una scuola”.
E intanto lavorava?
“Io lavoravo come artista. In 20 anni ho lavorato solo come artista, in Italia. Ho fatto circa 240 mostre, anche in altri paesi del mondo come Francia, Germania, Finlandia, Stati Uniti, Turchia…
Ma a Torino non mi lasciavano in pace. Quando dicevo che andavo in vacanza, era quasi una vergogna! “Come? Va in vacanza? Ma non lavora?” mi chiedevano. “No, io sono un artista, a volte lavoro e a volte vado in vacanza. Se ho voglia dipingo, se non ho voglia non dipingo” spiegavo io. Per favore, che la vita sia un po’ più lieve!”
E nel frattempo, il permesso di soggiorno? Dopo quel visto dipinto sul passaporto, come se l’è cavata?
“Quando quel visto dipinto da me è scaduto – in base alla data scritta da me! – sono entrato in clandestinità. Ho vissuto da clandestino per poco tempo, perché poi c’è stata una sanatoria: sono tornato in Albania, ho fatto i documenti, ho avuto il permesso di soggiorno, poi la carta di soggiorno e così via. Avevo una partita Iva, il mio studio, il mio commercialista. A questo punto gli italiani fanno sempre una domanda. “E le tasse?” Ebbene: le tasse, le ho pagate! Ho pagato anche Equitalia” (ride, ndr).
Ma dunque per un periodo lei è stato un artista clandestino!
“Non esistono artisti clandestini. Una persona clandestina esiste solo in base a un punto di vista che la ritiene tale. Io non avevo i miei documenti ma nel frattempo dipingevo documenti per altri… No, non è vero! (ride, ndr) A parte gli scherzi….
Si, sono stato per qualche anno clandestino. È stato quasi eccitante! Perché delle volte perdi tutto e ritrovi il gusto della libertà, attraverso il dolore. L’uomo si circonda di sicurezze perché è insicuro. Ma poi diventi borghese, ingessato… Vedi, oggi io dirigo la Galleria d’Arte Moderna di Tirana e sono diventato un borghese!…”
Come mai ha deciso di tornare in Albania?
“Non perché io sia albanese. È una questione di energia. Una persona si sente bene dove c’è energia positiva, dove ha da dire, ha da prendere, dove c’è un interscambio. La vita è un gioco di pingpong con le altre persone. È un ring, no? Alcuni stanno bene quando hanno una casa in montagna e soldi in banca. Per me invece la stabilità è pericolosa.
Quando in Italia ho raggiunto una situazione di sicurezza, ho cercato di scompaginare il tutto. L’Albania è un paese che secondo me ha dell’energia: questa energia – soprattutto quella dei giovani – va canalizzata e sfruttata per il bene del paese.
L’Albania lo merita. Siamo stati per 500 anni sotto l’impero ottomano-turco, poi abbiamo avuto l’indipendenza, poi ci sono stati le due guerre mondiali, poi la dittatura. Qui c’è desiderio di vita: la vita va conquistata. Anche la fortuna va conquistata.
La gente sente di doversi aggiudicare non solo il pane quotidiano, ma la vita stessa. In un paese dove c’è desiderio, c’è un’aggressività che ti fa sentire vivo. Ho visto che in Albania c’era una luce e che io dovevo essere parte di quest’epoca. Sentivo il desiderio e il dovere di offrire la mia esperienza artistica al mio paese perché serva ad altre persone di altre generazioni”.