I primi sono stati Manuel Valls e François Hollande lo scorso giugno con l’annuncio che, allo stato attuale dell’arte, la Francia non avrebbe firmato il TTIP perché questo non tutela l’agricoltura e la cultura nazionale. Poi è arrivato il voto per la Brexit nel Paese che è stato sempre il più grande sponsor europeo all’accordo con gli USA, la Gran Bretagna.
Ma il vero de profundis è stato ora intonato dal leader socialdemocratico e vice di Angela Merkel, Sigmar Gabriel, che ha detto senza giri di parole che la trattativa USA-UE è su un binario morto, anche se sicuramente rimarrà “in vita” a livello formale: un trucco per non riconoscere il fallimento inventato dal WTO che mantiene artificialmente in vita il Doha round su agricoltura e servizi dall’ormai lontano 2003.
Dall’altra parte dell’Atlantico, comunque, il TTIP forse è ancora meno voluto. Sicuramente da Donald Trump e Bernie Sanders, anche se ultimamente è calato l’interesse di portarlo avanti da parte di Hillary Clinton.
Ma perché questo negoziato – che sarebbe stato il più importante nella storia del commercio internazionale – viene ora insabbiato? La prima e scontata riposta è che, trattandosi di un’intesa tra due colossi, nessuno dei due è riuscito a prevalere sull’altro nel negoziato in corso. In buona sostanza, quando gli USA o l’UE negoziano trattati internazionali, lo fanno da una posizione di forza e sempre con un saldo attivo per loro. Con il TTIP, gli USA stanno per la prima volta negoziando un accordo con un gruppo di Paesi economicamente, tecnologicamente e demograficamente alla pari, e in alcuni settori addirittura più forti. Per l’Europa, si tratta della prima volta in cui si mettono seriamente in discussione 40 anni di regolamentazione del mercato interno e la stessa logica della coesione comunitaria così faticosamente costruita.
Nel caso del TTIP, entrambi i colossi hanno a un certo punto scoperto che non stavano firmando un accordo con il Messico o con il Camerun, ma qualcosa che poteva mettere in discussione protezionismi, rendite di posizione, monopoli commerciali costruiti in entrambe le sponde dell’Atlantico in decenni.
Anche l’opinione pubblica ha avuto la sua parte. Verso il TTIP si è registrata in questi anni una contrarietà crescente, rispecchiata nell’andamento dei sondaggi sulla popolarità dell’accordo rilevati dall’autorevole fondazione tedesca Bertelsmann: i favorevoli sono crollati dal 53% al 15% negli USA e dal 55% al 17% in Germania. Un clamoroso cambiamento nell’opinione pubblica dovuto al capillare lavoro di informazione e controinformazione dei cittadini promosso da migliaia di associazioni sia in Europa sia negli Stati Uniti.
Per l’Europa, e soprattutto per l’Italia, uno dei punti dolenti è il capitolo agricolo con due paletti invalicabili per sottoscrivere l’accordo: il riconoscimento dei marchi di tutela europei sull’agroalimentare e il divieto agli OGM. Due temi che negli USA non vengono nemmeno presi in considerazione. Altro argomento scottante, l’opposizione di Washington all’apertura del mercato interno degli appalti alle imprese europee.
Ma il nodo centrale della questione è legato al cambiamento della stagione politica mondiale. Di fronte alla crisi economica che non si è chiusa, ai Paesi Brics che arrancano, all’aumento della conflittualità globale, siamo all’inizio di un’era neo-protezionistica. Un neo-protezionismo che si legge chiaramente nello slogan America First di Donald Trump, ma anche nel Buy American di Barack Obama, e che in Europa si ripresenta puntualmente a partire dalla Francia: il bastione della difesa della peculiarità culturale e agricola europea a suon di miliardi di sovvenzioni e di barriere doganali tenute alte.
I due blocchi centrali dell’Occidente, che storicamente hanno fatto della retorica liberoscambista un’arma contro il protezionismo degli altri, dalla Cina al Brasile, hanno oggi paura di deregolamentare i propri mercati interni. Questo stallo permette di misurare la distanza tra il dire e il fare in politica economica: il “mercato senza rete” che gli Stati dell’Occidente auspicano per i Paesi che una volta erano del Terzo mondo, a casa loro può ancora aspettare.
E questo, soprattutto per i cittadini europei, è un bene.