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L’antieuropeismo non è contro l’Europa

Lo dimostra il voto del referendum sulla Brexit: una buona parte della società britannica è contraria all’Unione Europea.  Capire la natura di questo sentimento antieuropeo non è semplice.

Lo abbiamo chiesto a Heather Grabbe, direttrice dell’Istituto per la Politica Europea all’Open Society Foundations e dal 2004 al 2009 consigliere del commissario europeo all’allargamento Olli Rehn per i Balcani e la Turchia.

Da dove arriva l’antieuropeismo britannico?

L’antieuropeismo britannico arriva da molto lontano. Il primo motivo per il quale oggi stiamo votando sulla Brexit è un’antica spaccatura all’interno del partito conservatore, che negli ultimi quarant’anni non ha mai risolto le su divisioni sull’Europa. Da una parte i nazionalisti, dall’altra i sostenitori dell’apertura del Paese e della globalizzazione. David Cameron, il primo ministro britannico, decise di convocare il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea proprio nella speranza di risolvere una volta per tutte questi contrasti interni al suo partito. Ma non dobbiamo dimenticare che anche una parte dei media, soprattutto i tabloid, ha sempre criticato l’Europa e ha sempre alimentato l’euroscetticismo. Si tratta di una scelta dei proprietari di alcuni giornali. Il caso più emblematico è forse quello di Rupert Murdoch, che si era schierato contro l’integrazione europea già negli anni novanta se non negli anni ottanta. Murdoch ha proposto più volte che la Gran Bretagna uscisse dall’Unione Europea. E il suo caso non è isolato. Diversi media hanno scritto cose negative sull’Europa e hanno anche detto delle bugie. Hanno parlato per esempio di proposte per un esercito europeo, che non è mai stato proposto. Per questo motivo Cameron si è trovato in una situazione molto delicata. Si è dichiarato a favore dell’Europa nonostante le divisioni del suo partito e nonostante la campagna di alcuni mezzi d’informazione che attribuiscono a Bruxelles la responsabilità per i molti problemi del nostro Paese. Ma le cose non stanno così.

Ma per quale motivo l’antieuropeismo è così radicato nella società britannica?

Ci sono diversi motivi, e nella maggior parte dei casi non hanno nulla a che vedere con l’Unione Europea. Molte volte il dibattito di questi mesi sulla Brexit, soprattutto in Inghilterra, non è stato sull’Europa, è stato sull’immigrazione oppure sulla fine della Gran Bretagna come grande potenza mondiale, come aveva indicato Winston Churchill. C’è ancora un forte sentimento di nostalgia per quello che fu l’impero britannico. Come hanno confermato alcune ricerche universitarie i britannici si occupano poco d’Europa, conoscono poco l’Europa, e non si sentono particolarmente legati all’Europa.

Con l’arrivo dello UKIP, il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, pochi anni fa, si è però messo in moto un meccanismo importante. Lo UKIP ha creato un collegamento tra l’Europa e l’immigrazione. Gli inglesi si occupano poco di Europa, ma sono molto preoccupati per l’immigrazione. Quindi la crisi migratoria dei mesi scorsi ha avuto un impatto decisivo sul dibattito politico e lo avrà sul risultato di questo referendum.

Quanto è importante in questa vicenda l’identità nazionale britannica o inglese? Galles, Scozia e Irlanda del Nord hanno un’identità nazionale piuttosto definita, nel caso nord-irlandese addirittura una doppia identità nazionale, ma l’Inghilterra no, ecco quanto è importante sentirsi britannico o inglese in contrapposizione al sentirsi europeo?

Qui la questione centrale è la mancanza di un’identità nazionale inglese. Gli scozzesi hanno già fatto un referendum e sono a favore dell’Europa. E anche gallesi e nord-irlandesi sono europeisti, perché pensano che le nazioni più piccole siano più tutelate in un’Europa integrata. Questo non vale però per gli inglesi, che sono più grandi e più ricchi e hanno già un grosso peso in Europa. Ma gli inglesi non hanno un forte senso d’identità nazionale, anzi hanno quasi una crisi d’identità. Se a questo elemento si aggiungono la crisi economica e la crisi migratoria di questi ultimi anni si crea un quadro nel quale gli inglesi si sentono più deboli, più piccoli, meno importanti. E la responsabile di questa situazione, dice chi sostiene la Brexit, diventa l’Europa.

Lei ha lavorato molto all’interno delle istituzioni europee. Secondo lei l’Unione o gli altri governi europei hanno fatto delle mosse che possono aver allontanato la Gran Bretagna da Bruxelles?

Il problema non sono i rapporti tra Londra e gli altri paesi europei. Il problema sta nei rapporti conflittuali tra Londra e il resto della Gran Bretagna. Il dibattito è all’interno della classe politica britannica e all’interno del partito conservatore. David Cameron ha provato a fare un accordo con gli altri paesi europei per poter dire “abbiamo un negoziato, abbiamo un patto per migliorare le nostre condizioni all’interno dell’Unione Europea”. Ma alla gente non interessa. Questo presunto accordo non influirà il risultato finale del referendum. E secondo me si tratta dell’ennesima dimostrazione che gli eventi europei non sono quelli che contano. I problemi sono l’identità, la globalizzazione, la lontananza della classe politica. Sono questioni interne che purtroppo ora mettono a rischio tutta l’Europa.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    La transizione s’ha da fare, ma verso il militare. Di fronte al piano di riarmo europeo da 800 miliardi voluto dalla Presidente della Commissione Ue Von der Leyen, la transizione ecologica per la decarbonizzazione dell’economia slitta in secondo piano. Questo vale soprattutto per l’automotive: la conclamata crisi del settore – frutto della miopia dei produttori auto e delle scelte non incisive né coerenti della politica – è diventata ora l’occasione non per accelerare sull’elettrificazione dei trasporti, ma per promuovere la riconversione produttiva verso l’industria della difesa e delle armi. Il nono episodio del podcast “A qualcuno piace verde”, il Podcast di alleanza Clima Lavoro a cura di Massimo Alberti, racconta – a partire dal convegno “Mobilità sostenibile al lavoro” che si è tenuto a Torino il 13-14 marzo 2025 – il passaggio in Europa e in Italia dal Green Deal al War Deal. Con l’automotive, appunto, come snodo centrale.

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