Ci sono libri che con solo una certa difficoltà riusciamo a definire “belli”.
La cosa non ha a che fare con la loro intensità ed effettiva capacità di smuovere il lettore, di coinvolgerlo, di tirare i fili della Storia e legarli a presente e futuro. Tutt’altro. Ci sono libri che proprio per il grado di coinvolgimento richiesto al lettore – e per quello espresso dall’autore – suggeriscono pudore e un certo ritegno; che mal sui accorda, appunto, a un criterio estetico come il “bello”o il “piacere”.
Il bambino nella neve di Wlodek Goldkorn è uno di questi. Nonostante i temi trattati – la Shoah e il mondo degli ebrei dell’Europa orientale spazzato via dall’odio e dal razzismo – Il bambino nella neve è un “bel libro” – di più, è un grande libro – perché il male raccontato, il nihil continuamente guardato negli occhi, non riesce mai davvero a prevalere, a vincere sulle storie e sulle vite delle vittime che quel male ha cercato di annientare.
Wlodek Goldkorn è un ebreo nato in Polonia da genitori comunisti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Parte della sua famiglia è stata uccisa nei campi di sterminio nazisti. Il suo mondo, quello che racconta in questo libro, è quello della lingua e della cultura yiddish: un mondo, spiega nell’intervista a Radio Popolare, “laico, progressista, assolutamente non identitario, di cui non è rimasto praticamente nulla“.
La famiglia Goldkorn dovette lasciare la Polonia nel 1968 – Wlodek allora aveva 16 anni -, quando gli ebrei per il regime comunista di Władysław Gomułka divennero degli “agenti nemici” in combutta con l’Occidente. Dopo un periodo con la famiglia in Israele, Goldkorn è tornato in Europa; prima in Germania, poi in Italia, dove per anni è stato responsabile delle pagine culturali dell’Espresso.
Il bambino nella neve racconta tutto questo; ma racconta soprattutto il viaggio di Wlodek nel passato tragico della sua famiglia e quello, materiale, concreto, che lo scrittore fa per i campi di sterminio: Birkenau, Bełżec, Treblinka, Sobibór. Campi di sterminio e non di lavoro o di concentramento, ci tiene a sottolineare Goldkorn, “quelli dove quando arrivavi venivi direttamente inviato nelle camere a gas“.
Nelle pagine del libro, e nell’intervista a Radio Popolare, Goldkorn continua a sottolineare come la Shoah sia “un vuoto“, impossibile da immaginare e impossibile da dire, e per questo da dire e da immaginare continuamente. La memoria è fallace, limitata, “la memoria è una costruzione sociale che si basa su un’immagine che vogliamo trasmettere al futuro”, spiega Goldkorn; la memoria “non è un pezzo di legno”, non può essere reificata, chiusa nelle mura di un museo, usata a fini didattici e ormai svuotati, celebrativi. La memoria ha senso solo se continuamente rinnovata, immaginata, se diventa agente attivo di una radicale “contrapposizione al potere“, se si batte per la difesa degli indifesi, delle vittime di oggi – secondo l’insegnamento di Marek Edelman, attivista del Bund, uno degli organizzatori della rivolta del ghetto di Varsavia, maestro di vita di Goldkorn.
Con una straordinaria ampiezza di riferimenti letterari e filosofici – da Hannah Arendt a Sant’Agostino, da Kafka a Bruno Schulz – con il suo vagare nella memoria, con il viaggio fisico tra ciò che rimane dei campi di sterminio, Goldkorn fa una cosa alta e difficile. Desacralizza la Shoah, la racconta nella sua follia, materialità, abiezione, assurdità; riuscendo però a far prevalere quel principio di “vita e piacere” che le donne della famiglia Goldkorn hanno insegnato al piccolo Wlodek.
In fondo, sia pure con il nihil che incombe, e senza bisogno di essere credenti, bisogna fare come se il Messia, un giorno, arriverà.
Wlodek Goldkorn, Il bambino nella neve, Feltrinelli, 2016, pp. 202, 16 euro