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Panama, un Paese offshore

Dimenticatevi i cabli a Wikileaks di Edward Snowden. Panama Papers, l’inchiesta internazionale pubblicata dall’ICIJ, il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi, brucia qualunque record in termini di mole di dati desecretati. Sono 2,6 terabyte di segreti bancari dei potenti del mondo che dal 1970 cercano riparo nel Paese del canale.

Tra loro ci sono anche un centinaio di italiani, di cui il nome che fa più clamore è quello di Luca Cordero di Montezemolo. Una squadra di oltre 400 giornalisti ha curato l’inchiesta, uscita in 76 Paesi.

“Tutte le informazioni che si possono carpire da Panama, riguardano pezzi da 90, non solo semplici evasori”, ci spiega il nostro collaboratore Alfredo Somoza. Tutti i narcotrafficanti del mondo ricilano denaro sporco nella piccola Panama. Il Paese ha inventato l’economia offshore negli anni Settanta e negli anni Ottanta ha cominciato ad ospitare personaggi del calibro di Pablo Escobar, venuto a riciclare denaro sporco proprio nello studio legale da cui è filtrato il mega leak: Mossack Fonseca. A fondarlo sono un avvocato panamese e il figlio di un ex gerarca nazista, fuggito a Panama a cercare riparo.,

Panama è un Paese offshore. Fino a 20 anni fa era sotto il pieno controllo degli Stati Uniti, che ha prelevato la regione alla Colombia per poter realizzare il canale. Anche oggi Panama non ha una propria moneta: vale il dollaro a stelle e strisce. Nonstante le promesse di un giro di vite definitivo sui paradisi fiscali, tutte le istituzioni internazionali, dal G20 in giù, hanno fallito. Panama Papers ne è la riprova.

Ascolta l’intervista ad Alfredo Somoza a cura di Chawki Senouci

alfredo somoza panama

Che fosse il Paese a cavallo tra Centro e Sud America la chiave per accedere al forziere dei segreti bancari del mondo, non è una novità. Lo testimonia questo pezzo di tre anni fa curato da Alfredo Somoza per Esteri e pubblicato nel libro Oltre la crisi.

In Centro America, a dividere e insieme unire il Nord e il Sud del continente c’è un piccolo Stato-cerniera con una storia che sembra il copione di una fiction. Un Paese il cui nome si può tradurre in due modi: in lingua indigena Panama significa infatti sia “abbondanza di pesci e di farfalle” sia “aldilà”. Il destino di Panama è scritto nel suo nome perché “abbondanza” e “aldilà” sono le due parole chiave con le quali si può definire la globalizzazione. L’abbondanza di materie prime, di terre, di minerali, che diventano però ricchezza al di là delle terre in cui si trovano, in Paesi o addirittura in continenti lontani.

Da quando la terra è stata scippata agli indigeni, Panama si trova al centro di movimenti internazionali di beni e capitali non sempre – anzi raramente – leciti. Qui si depositava il tesoro d’oro e argento strappato agli Incas in Perú prima di imbarcarlo sulla flotta che annualmente portava in Europa il frutto del saccheggio americano. Una volta nel Vecchio Continente, la maggior parte delle ricchezze finiva a Londra, Rotterdam e Amburgo, e anche a Siena e Genova, per ripagare le banche che, con i loro prestiti, stavano sostenendo economicamente la conquista. Si creò così la capitalizzazione che, due secoli dopo, avrebbe finanziato la Rivoluzione Industriale.

Il tesoro provvisoriamente depositato a Panama risvegliava gli appetiti di altri predatori europei: britannici, francesi e olandesi. Più volte i porti fortificati del Paese furono messi a ferro e fuoco da gentiluomini quali Sir Francis Drake e Sir Henry Morgan.

Panama, “colpevole” di trovarsi nella parte più sottile del continente, continuò a rivestire un ruolo importante nella globalizzazione dopo aver ottenuto l'”indipendenza” dalla Colombia, nel 1903: Bogotá aveva respinto una proposta “che non si poteva rifiutare” da parte del presidente statunitense Theodore Roosevelt, il quale voleva costruire un canale tra gli oceani gestendolo direttamente da Washington. La soluzione fu rendere autonoma dalla Colombia la zona in cui si voleva creare il canale.

Iniziò quindi la storia della Repubblica del Panama, con il presidente nominato dai Marines che, come primo atto di governo, autorizzò gli USA a costruire e gestire un canale tra gli oceani Atlantico e Pacifico. Il canale, aperto nel 1914, diventò un grande volano per le comunicazioni marittime mondiali, insieme a quello di Suez, permettendo di accorciare i tempi e i costi del trasporto di merci: una forte spinta per il processo di globalizzazione e un ruolo centrale nei traffici mondiali.

Panama aveva ancora molte carte da giocare. È infatti qui che è nata l’economia offshore. Uno spazio virtuale, ma saldamente ancorato ai confini nazionali dello Stato ospitante, nel quale registrare imprese e persone fisiche che vogliono evadere le tasse nei rispettivi Paesi o spostare capitali di dubbia provenienza. Anche la marina mercantile è stata rivoluzionata dalla possibilità di registrare le navi sotto bandiera panamense, soluzione che ha permesso agli armatori di sottrarsi alle imposte dei Paesi di origine. Il modello Panama è stato riprodotto velocemente nelle piccole isole caraibiche di fronte alle sue coste, già colonie dei medesimi Stati che un tempo proteggevano i pirati: Regno Unito, Francia, Paesi Bassi.

Negli anni ’80 del secolo scorso il quartiere degli affari di Panama City è diventato “narcocity”: a Panama entravano i soldi sporchi della droga che subito dopo uscivano ripuliti, bianchissimi, pronti per essere investiti nell’acquisto di terre, nell’edilizia, nei servizi.

Dal modello di economia narco è derivato un Paese basato sulla corruzione. Il governo nazionalista del comandante Omar Torrijos, che era riuscito a strappare a Jimmy Carter l’impegno alla restituzione del canale ai panamensi, è stato una parentesi. Torrijos è morto nel 1981 in uno dei tanti incidenti aerei, odoranti di CIA, ai danni di leader progressisti. Il suo successore, il comandante Manuel Noriega detto “faccia d’ananas”, negli anni ’80 è diventato un personaggio chiave negli intrighi di un’America Centrale dilaniata dai conflitti armati.

Noriega, a libro paga della CIA, è stato al centro dell’affaire “Iran-Contras-Gate“. Cioè dell’operazione illegale montata dallo spionaggio e da settori dell’esercito statunitense per procurarsi soldi e acquistare armi da fornire ai contras antisandinisti e a parte dell’opposizione iraniana. I soldi arrivavano da un traffico di cocaina verso gli USA gestito in società con i cartelli colombiani, triangolando proprio su Panama. Nel 1989 il momento magico del dittatore è finito. A conoscenza di molti segreti, è stato prelevato durante l’invasione del Paese da parte dei Marines e condotto in prigione in Florida, per scontare una condanna all’ergastolo… per narcotraffico.

Ora che il canale è passato sotto il controllo panamense le cose non sono cambiate di molto. La differenza rispetto al passato è che attualmente il Paese centroamericano ha molti concorrenti, perché il “modello Panama” si è rivelato vincente e ancora nessuno ha provato seriamente a smontarlo. Ecco perché questo Paese illustra perfettamente le contraddizioni, le connivenze pericolose, i doppi giochi e le doppie morali che, dal XV secolo in poi, hanno caratterizzato la globalizzazione dell’economia.

Panama è dunque un ottimo punto di partenza per ricostruire quei meccanismi che hanno impedito che la globalizzazione fosse un’opportunità per tutti, e anche per riflettere su come costruire un futuro diverso. Per cambiare modello, per voltare pagina, non bisogna dimenticare la storia di questo piccolo Stato, che è lo specchio della nostra storia, almeno di quella degli ultimi quattro secoli. Uno specchio del mondo che ne riflette la parte meno bella, quella da cancellare.

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    “Di questa infamità vergognosa noi, spettatori spesso indifferenti, siamo del tutto colpevoli”. Sono le parole con cui Dario Fo, dieci anni fa, raccontò la storia di Ion Cazacu, ingegnere romeno immigrato in Italia per lavorare in nero come piastrellista a Gallarate. Ion Cazacu, il 14 marzo del 2000, 25 anni fa, fu cosparso di benzina e bruciato vivo dal suo datore di lavoro. Cosimo Iannece, il padrone, rispose così alle continue richieste di Cazacu di avere una paga dignitosa, un contratto regolare, per sè e per i suoi compagni di lavoro. Cazacu morì il 14 aprile 2000 dopo un mese di agonia per le ustioni gravissime che aveva su tutto il corpo. Iannece alla fine di tutto l’iter processuale fu condannato a 16 anni, dopo che in primo e secondo grado le condanne furono a 30 anni. Della storia di Ion Cazacu, dello sfruttamento schiavistico a cui fu sottoposto, si occuparono negli anni anche Franca Rame e Dario Fo. Florina Cazacu, figlia di Ion, è stata ospite di Pubblica, oggi. Insieme a Fo, Florina Cazacu ha scritto un libro che è anche un atto di denuncia contro lo sfruttamento, le violenze sul lavoro. Il libro si intitola: «Un uomo bruciato vivo. Storia di Ion Cazacu» (Chiarelettere 2015).

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