L’utilità della parola, e del confronto guardandosi negli occhi, sembra un tema superato di questi tempi. Eppure in quei momenti passa di tutto, magari anche un po’ di verità.
Dobbiamo parlare, il nuovo film di Sergio Rubini di cui è anche interprete con Fabrizio Bentivoglio, Isabella Ragonese e Maria Pia Calzone, si svolge nel salotto di un palazzo romano, con terrazza e gatto intruso, nel centro della città. È la casa di Vanni e Linda, scrittori e innamorati, in cui irrompe Costanza, disperata per aver scoperto che il marito la tradisce. Lui è Alfredo, il prof e a un certo punto arriva lì anche lui. È un chirurgo, estroverso e sbruffone, romanissimo e un po’ greve, con il volto di Fabrizio Bentivoglio.
“È un personaggio mozartiano con tratti sulfurei, strabordante e abrasivo, quasi punk, una sorta di profeta, un chirurgo toracico molto autorevole e ha una personalità esuberante e corrosiva”. Si descrive così Bentivoglio, pensando al suo Prof.
Ognuno con i propri crucci, che in una notte vengono esternati, scambiati, mescolati tra i quattro amici. Sincerità e franchezza, ma anche un po’ di sadismo.
“Avevo in mente di raccontare le parole, la loro pericolosità. Forse se si avesse la forza di parlare di meno e di abbandonarsi di più alla naturalità delle emozioni senza paura e senza nasconderle, le cose sarebbero più semplici”. Racconta Sergio Rubini.
Il salotto diventa il campo di battaglia di quegli scambi verbali: tradimenti, delusioni, esperienze nascoste e molte rivendicazioni. E quella casa intellettual-borghese diventa il set vibrante di questo kammerspiel, cinema da camera. Il regista Sergio Rubini torna a girare in un unico spazio, come già aveva fatto per La Stazione o in Una pura formalità di Giuseppe Tornatore, in cui si era trovato attore con Roman Polanski. E citando Polanski è inevitabile pensare a Carnage, con quelle due coppie isteriche ed esilaranti rinchiuse in un salotto a dirimere una lite tra i figli.
È un film con una forza guidata dalla performance degli attori, nel tentativo di cogliere attimi di verità rincorrendoli tra gli spazi angusti di quattro mura. La terrazza c’è ma non si vede, o meglio si vede il giusto per poter citare con rispetto il film di Michelangelo Antonioni.
“I primi si ritroveranno a dirsi bugie e i secondi a dirsi tutto in faccia e il racconto diventa quasi un esperimento di chimica, un pretesti per parlare di noi, della qualità dei nostri sentimenti, delle cose che ci diciamo e di quelle che ci teniamo nascoste, sulla qualità del nostro parlarci”.