Il sottosuolo cinese è inquinato. Il problema sarebbe così grave che un paio di anni fa si parlava con una certa inquietudine di un rapporto segreto che i piani alti del potere tenevano nascosto per paura di provocare effetti destabilizzanti. Altro che degrado dell’aria – si diceva – la vera bomba a orologeria è sotto terra. Perché i cinesi sono resistenti e resilienti, va bene, ma se gli tocchi i bisogni più materiali – mangiare, bere – allora danno di matto. Quando il rapporto del ministero della Protezione Ambientale effettivamente uscì, a metà aprile 2014, si apprese che un quinto della terra arabile cinese era inquinato. Il segnale positivo veniva dall’insolita trasparenza con cui il problema veniva denunciato. Ma dato che pochi si fidano, immediatamente sorse il sospetto che la situazione fosse ben peggiore e che il governo lasciasse trapelare solo una verità edulcorata.
Oggi, un nuovo rapporto del ministero delle Risorse Idriche rivela che l’80 per cento dell’acqua utilizzata da fattorie, fabbriche e nuclei familiari non si dovrebbe bere; sarebbe bene farne a meno anche per lavarsi o bagnarvisi dentro. Secondo la ricerca – effettuata su 2.103 pozzi sotterranei – il problema è soprattutto la contaminazione dovuta alle attività industriali e agricole. Lo studio rileva che il 32,9 per cento dei depositi esaminati, soprattutto nel Nord e nel centro della Cina, corrisponde a un livello 4 di purezza dell’acqua, adatta quindi solo a uso industriale. Il 47,3 per cento dei pozzi è messo ancora peggio: livello 5. Le sostanze contaminanti più diffuse sono il manganese, il fluoruro e dei composti fungicidi denominati triazoli. In alcuni pozzi era forte l’inquinamento da metalli pesanti. Il rapporto specifica anche che la maggior parte delle città cinesi attingono l’acqua da serbatoi profondi, esclusi quindi dalla ricerca; ma molti villaggi e città di piccole dimensioni, soprattutto nelle zone rurali, dipendono proprio da pozzi analoghi a quelli esaminati.
Proprio in contemporanea con la diffusione di questa notizia, in Mongolia Interna – quella cioè in territorio cinese – un gruppo di pastori nomadi ha cominciato a battersi contro un impianto di produzione dell’alluminio che sta inquinando i loro pascoli. Lo riporta Radio Free Asia (RFA), secondo cui più di 300 pastori mongoli dello Zaruud Banner (la regione di Zaluteqi, in cinese) hanno cominciato a protestare venerdì scorso nei pressi della fabbrica di Huuliin-gol. Denunciano alti tassi di mortalità tra le pecore e di cancro tra gli esseri umani. Si parla di una forte presenza di fluoro nell’acqua, nel terreno e nell’erba della zona; e si chiede un’inchiesta indipendente. Ci sono stati scontri tra gli allevatori e la polizia antisommossa giusto fuori dall’impianto, mentre lunedì le forze di sicurezza hanno bloccato le strade d’accesso a Huuliin-gol e respinto un convoglio di oltre cento persone che cercavano di dirigersi alla fabbrica a bordo di decine di camion. Secondo testimoni, alcuni pastori che cercavano di raggiungere l’impianto sarebbero stati picchiati e sbattuti in terra, mentre i poliziotti impedivano a chiunque di riprendere la scena con gli smartphone. Martedì mattina sono stati effettuati degli arresti, ma non si sa ancora quanti siano.
Uno studioso di etnia mongola di nome di Huubis, ha dichiarato a RFA che i disordini di questi giorni arrivano dopo oltre 10 anni di lamentele da parte dei residenti locali. «La gente ha i denti deformi, mentre si è scoperto che le ossa e i denti degli animali morti hanno un colore insolito», dice l’uomo, aggiungendo che i funzionari locali fanno poco perché «il governo, oggigiorno, si occupa solo di perseguire gli obiettivi economici». Il problema dell’inquinamento, in questo caso, rivela anche lo scontro tra due civiltà: da un lato, quella nomade, legata ai cicli naturali, allo sfruttamento estensivo ma sostenibile della natura, e che dà valore anche simbolico ai luoghi a partire dalla loro importanza materiale. Dall’altro quella sedentaria, che dallo sfruttamento intensivo dei campi è passata alla creazione di plusvalore, alla fase industriale e quindi all’utilizzo delle risorse naturali come pure commodities.
Questa volta, ai pastori nomadi si sarebbero però uniti nella lotta anche i cinesi han della vicina cittadina di di Arikunduleng. «Su questo problema, esprimono una sola volontà, perché la vita sta diventando impossibile per tutti», dice a RFA tale Xinna, un militante per i diritti della minoranza mongola.